A otto anni dal suo ultimo album torna Mark Lanegan e la sua voce dal timbro catacombale.
A fine marzo il suo tour lo porterà all’Estragon club di Bologna e all’Alcatraz di Milano
Narra il mito che il musicista e cantore Orfeo discese agli Inferi per riportare in vita l’amata Euridice e che con la sua lira e la sua musica incantò e placò belve infernali e semidei, addolcì e demoni e commosse anche la regina del regno dei morti. C’è un solo cantante, un unico artista che possiede oggi una voce in grado di scendere fino all’inferno per riscattare una vita. Mark Lanegan – che domani pubblica il nuovo album, Blues funeral con la sua Band, il primo dal disco Bubblegum del 2004 – non è solo una delle migliori voci del rock americano, passata dall’epoca «grunge» anni ’80 con gli Screaming Trees fino allo «stoner» anni ’90 dei Queens of the Stone Age, e alle nuove collaborazioni anni 2000 con Twilight Singers/Gutter Twins e Isobel Campbell. Questo rocker nato in una famiglia di predicatori e passato da esperienze difficili (prigione, droga) è una voce blues nel vero senso della parole. Il suo timbro catacombale, una spessa coltre di velluto nero che scende fino nel profondo dell’anima, deriva da vocalità estreme come quella di Howlin’ Wolf, uno dei bluesman più innovativi degli anni ’50. Ma con il nuovo Blues funeral Lanegan si spinge ancora più in là, in un territorio finora mai toccato da nessuno. «Vorrei avere la voce di Al Green o di Brian Ferry», ci ha confessato. «Vorrei avere un timbro soave. In realtà vorrei avere la voce di milioni di altri cantanti. Ma non si può: uno c’ha la voce che Dio gli ha dato. Al Green, per esempio, può sedurre una donna cantando appena un paio di strofe; io sono diverso». E lo dimostrano brani come The Gravedigger’s song e Bleeding muddy water, blues neri come la pece, lontani dalla tradizione afroamericana eppure radicati in quel canto disperato e bellissimo, nato nel Delta del Mississippi alla fine del 1800. Ma Lanegan sa pure come imbastire un brano finto-pop come Gray goes black; intonare un’elegia basandosi su una batteria elettronica (St. Louis elegy) e perfino prendere in prestito un ritmo new wave per intonare un’ode moderna (Ode to sad disco). «Sono tutti blues, in realtà, come quell’altro, Phantasmagoria blues, perché sono brani che parlano di emozioni profonde, universali, e raccontano di dolore, lutti, separazioni. Cerco da sempre di replicare quello che i dischi blues mi facevano provare, l’atmosfera di certe incisioni. Non m’interessa la struttura blues vera e propria, le 12 battute e tutto il resto: cerco l’anima, il feeling di una musica senza tempo». Dalla fine di febbraio Mark Lanegan sarà con la sua band in Europa per un lungo tour che toccherà l’Italia a marzo: sabato 24 a Bologna (Estragon club) e domenica 25 a Milano (Alcatraz).( Brescia Oggi)
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