Cosa sarebbe lecito attendersi da un album dei National, nel 2013?. Per quanto destinata a lasciare il tempo che trova, è questa la domanda che più di ogni altra sorge spontanea alla luce di quanto i cinque di Cincinnati hanno prodotto finora.
Emersi dal mare dell’underground con l’acclamatissimo “Alligator” del 2005, i National sono riusciti poi a ripetersi (e forse superarsi) con il successivo “Boxer”, che due anni più tardi li ha proiettati definitivamente nel firmamento delle band-chiave del decennio appena trascorso e ha contribuito ad alzare l’asticella delle aspettative nei loro confronti.
Inevitabile, dunque, che la capacità di occupare il limbo tra l’adulto esistenzialismo di suoni e liriche e la propensione delle melodie verso un pubblico più ampio, ponesse la band davanti a una scelta: spremere al massimo le doti dei musicisti e osare alla ricerca di un nuovo capolavoro o consolidare le formule di scrittura per incrementare ulteriormente il proprio seguito?
Su queste pagine, Simone Coacci ha efficacemente sottolineato come il penultimo “High Violet” fosse un tentativo di battere la seconda delle due strade, soluzione che magari potrebbe aver fatto storcere il naso agli ascoltatori più snob, ma che di certo non ha screditato le quotazioni della band, perché chi scrive canzoni che si chiamano “Terrible Love”, “Runaway” o “Vanderlyle Crybaby Geeks” finisce inevitabilmente per avere ragione.
Quello che però forse è mancato a “High Violet” erano l’urgenza e la freschezza che sgorgavano dai precedenti lavori, l’acume dei giochi testuali e gli slanci sorprendenti in fase di arrangiamento in cui pochi istanti parevano raccontare un’eternità e facevano di “Alligator” e “Boxer” (ma anche “Sad Songs For Dirty Lovers”) delle sublimi istantanee dotate di un’identità intrinseca e non delle pur elegantissime dimostrazioni di assestamento del National-sound.
La questione torna d’attualità anche per il nuovo “Trouble Will Find Me”.
Lungi dal definirsi un passo falso, l’album lascia comunque aperto il dubbio su quanto una band possa cavalcare le proprie soluzioni vincenti prima che queste arrivino a definirsi prevedibili.
Esempio lampante è costituito da quelle che nascono come le scelte stilistiche di maggior interesse (synth, drum machine), ma che invece funzionano più come finezze integrative che come indici di volontà di esplorare nuovi orizzonti. Ciò che rimane in primo piano sono costruzioni ritmiche e vocali tanto sintomatiche del gusto dei musicisti quanto veicolanti sensazioni di déjà vu, a cominciare da “Don’t Swallow The Cap”, antipasto messo in rete prima dell’uscita dell’album, da annoverarsi con “Graceless” tra le classiche cavalcate pop-wave in punta di piedi che ormai si potrebbero scrivere nel sonno.
E che sia un po’ di stanchezza quella inizia a trapelare dall’operato dei National lo dimostrano anche le take di Matt Berninger, forse mai così dimesso nel suo ventriloquismo e rinunciatario ad aggredire le canzoni là dove invece se ne sentirebbe il bisogno.
A tal proposito va sottolineata l’azione benefica da parte di compagni di merende (Sufjan Stevens, St. Vincent, il sempre presente Richard Reed Parry e una Nona Marie Invie in meritata crescita di status),chiamati a rinverdire le trame e non a caso presenti in molti degli episodi più riusciti, come il pop-anthem “I Should Live In Salt”, il finale a briglia perlomeno allentata, à la “Terrible Love”, di “Sea Of Love” o la spettrale chiusa per archi e voci che suggella splendidamente “This Is The Last Time”.
E’ evidentemente un album fatto di grandi momenti più che di grandi canzoni, questo “Trouble Will Find Me”, tant’è che, seppur privo dei picchi di “High Violet”, sa difendersi con refrain efficaci anche quando si ha la sensazione che manchi il centesimo per fare il dollaro (“I got a trouble inside my skin/ I try to keep my skeletons in” in “Slipped”, difficilmente resistibile).
Ancor più attraente risulta poi il colpo di coda finale in cui, smessi i panni in cui si trovano fin troppo comodi (“I Need My Girl”), i Nostri prima partecipano al party revival della kosmische musik entrando sì dalla porta di servizio, ma con lo smoking giusto (“Humiliation”), poi volgono lo sguardo all’America dei loro padri sciorinando un mid-tempo che coccola il ricordo di Levon Helm per le strade di Brooklyn (“Pink Rabbits”).
Spetta a “Hard To Find” il compito di chiudere in una solennità volutamente accennata, sospesa in un etere di chitarre e synth, prima che il passo felpato di Bryan Devendorf non intervenga a portarsi via canzone e album, ma probabilmente non tutti i dubbi.
E’ infatti opinione di chi scrive che ogni grande disco è dotato di una propria autonomia, un “parlare per sé” che lo mette in condizione tanto di ricondursi all’autore, quanto di saper prescindere da quest’ultimo facendo leva su un alone di mistero che ne determina la longevità. La maturità mostrata dai National di “Trouble Will Find Me” è invece dimostrazione di un controllo eccessivo, certamente sulla base di una raffinatezza superiore, ma che quando si associa a una band di tale levatura sa anche di colpi tenuti in canna.
Per adesso gli ingranaggi continuano a funzionare, ma cresce sempre di più la speranza che uno degli ultimi astri del pop-rock americano non rischi alla lunga di sedersi sulle basi della propria grandezza.
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