di Mino Speranza
“In the sun / In the sun I feel as one / In the sun / In the sun / Married. Buried.”
Potrebbe essere tutto qui il senso di quello che, con vent’anni di acqua passata sotto i ponti, oggi non è difficile individuare come il disco più completo dei Nirvana. Versi tratti da ‘All Apologies’, perfetta, epica e insalubre conclusione di un percorso breve ma intenso, che ha proprio in questa canzone un punto di riferimento ultimo e definitivo dove il contrasto tesi-antitesi arriva al suo apice : la voglia di sentirsi unici e liberi di esprimersi senza alcun vincolo deve necessariamente scontrarsi con una realtà sempre più diversa da quella ‘ideale’. Dove il matrimonio non è da intendersi per forza come quello tra Kurt e Courtney ma anche quello con la casa discografica, con i giornalisti, con il pubblico. Per carità, Kurt adorava il suo pubblico e per un certo periodo ha anche apprezzato l’attività live della sua band. Ma poi l’idolatria dilagante resa accecante dai vestiti da iconoclasta cuciti su misura per lui dai media e che hanno tradotto l’uomo Kurt in un personaggio che per nulla si confaceva alle sue reali intenzioni e alle direzioni più intime del suo animo, hanno messo in moto un processo di negazione artistica e umana che si sono sintetizzate in ‘In Utero’.
Ultima stazione di un viaggio compiuto in tre tappe con una lucidità artistica che ha del miracoloso visto il contesto nel quale era pesantemente incastrato il processo compositivo del trio dopo il botto di ‘Nevermind’, il disco sorprende per quel suo carico di energia che, assaporato oggi, ha il gusto di un ultimo, strenuo, atto di difesa/abnegazione alla causa. Ma anche quel retrogusto amaro di dismissione, un volersi abbandonare alla furia avendo la consapevolezza di non avere più gli strumenti fisici e psichici per controllarla (“Teenage angst has paid of well / Now i’m bored and old“, ammette Kurt in ‘Serve The Servants’).
A ben vedere ogni capitolo della rivoluzionaria trilogia rock della band di Aberdeen non può non essere contemplato – per motivi diversi – con un costante ed eccitato senso di sorpresa e meraviglia. ‘In Utero’ forse offre ancora più motivi per restare a bocca spalancata rispetto ai due lavori che lo hanno preceduto. Perché? Semplicemente perché chiunque al posto dei Nirvana avrebbe provato a godere artisticamente (e non solo) dei quattro guanciali offerti dalle vendite e dall’unanime risonanza critica di ‘Nevermind’. O semplicemente avrebbe gettato la spugna, convinto di aver fatto tutto quanto era nelle proprie possibilità (se avete pensato ai Guns ‘n’ Roses siete sulla buona strada). Invece ‘In Utero’ prende letteralmente a calci in faccia le melodie, i singalong e la produzione impeccabile del disco con il bambino in copertina.
E’ questa esasperante disperazione per un successo nel quale non riusciranno mai ad identificarsi che spinge i Nirvana a partorire un disco ancora più abrasivo, frontale ed incendiario di quanto non ci si poteva aspettare dopo l’exploit di ‘Nervermind’ (che comunque, per dovere di cronaca, come ben sapete non finisce di certo dopo l’ascolto dei singoli). Lo spirito, la grinta irrefrenabile e – perché no – l’attitudine sbeffeggiatrice che caratterizzano scrittura ed esecuzione di pezzi come ‘Milk it’, ‘Very Ape’, ‘Scentless Apprentice’ e ‘Tourette’s’ non sono soltanto la spina dorsale del disco ma, ricollegandosi idealmente a episodi della stessa tempra risalenti a periodi precedenti come ‘Aneurysm’ , ‘School’, ‘Silver’, ‘Love Buzz’ o ‘Negative Creep’, sostengono a piene mani la band anche nelle esecuzioni live come una sorta di isola felice al riparo dalle varie ‘Smells Like Teen Spirit’, che col passare del tempo sono diventate sempre più croce e meno delizia (vedi Reading 1992, ne più ne meno che la risposta alternativa al ‘Made In Japan’ dei Deep Purple).
Ma se, alla fine, non me la sento di confutare a cuor leggero la tesi estremizzante ma non infondata secondo la quale una delle principali fonti dalle quali il songwriting di Cobain ha attinto si trovava dalle parti di Liverpool ed era attiva intorno agli anni ’60 è anche perché neanche ‘In Utero’, per quanto partorito con intenzioni tutt’altro che votate al pop, riesce del tutto a sfuggire dalle carezze della melodia da sempre parte integrante (e per diversi episodi preponderante) della cifra stilistica dei Nirvana. Anche se elementi quali le intemperanze ritmiche, le scariche elettriche ed il marciume del noise possano permeare ogni nota di queste canzoni, la scintilla melodica è sempre attiva, pronta a contagiare i bassifondi di queste canzoni. Un elemento, quello della melodia, sicuramente instabile e sbilenco, ma fuor di ogni dubbio assolutamente limpido (‘Rape Me’, ‘Dumb’). Fondamentalmente i Nirvana oltre ad essere un gruppo attitudinale, cioè influente anche per il ‘modus vivendi’ dei membri del gruppo all’interno di una vita privata orfana di qualsiasi cenno di privacy, non sono altro che un enorme libreria di ottime canzoni. Non di esperimenti, bozze o rumorismi informi: canzoni dall’impatto comunque immediato sia con addosso un’attitudine punk che con una smorzata dal pop.
E’ questo l’aspetto chiave di ‘In Utero’, un campionario esemplare di sfumature differenti, con un disincanto pressante ed insolito (per chi poi – sulla carta – avrebbe una vita di trionfi davanti a se) a fare da collante, insieme ad una capacità innata di tirar fuori da pochi micidiali minuti di chitarra-basso-batteria delle idee mai banali fulminanti come istantanee e fondamentali come testamenti.
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