Natura non facit saltus e così ad Adam Cohen è rimasto qualcosa del su’ babbo: il gusto per dolci ballate per lo più acustiche, un certo modo di strascicare le parole, la pacatezza con cui raccontare al mondo gioie e tormenti dell’amore. Tutto ciò può essere letto both ways: che noia, che tenerezza, che pena, per fortuna. Lui lo sa e ha l’aria di scusarsi: “Nonostante i miei sforzi per forgiare una diversa identità, faccio parte di quella folta schiera di persone che hanno proseguito l’attività paterna.”
Si può essere indulgenti. Adam è bravo, modesto e non si fa troppe illusioni, mentre prosegue con molta calma la carriera iniziata tempo fa: questo è il terzo album da solista, il primo risale al 1998, nel frattempo ne ha inciso un altro più uno con i Low Millions – fanno tre ore scarse di musica in tredici anni, poco disturbo. I suoi maestri, a dargli retta, sono Randy Newman, Gainsbourg, Prince e gli U2 ma qui si nota solo l’illustre genitore, a tratti evocato, a tratti proprio calligrafato, su liquidi tappeti di tastiere e corde risonanti, con l’onda di un coro femminile sullo sfondo. Molto piacevole comunque, qualche volta speciale; come sottolinea anche l’orgoglioso genitore, quando definisce “world class love songs” canzoni come Like A Man e What Other Guy (io aggiungerei Out Of Bed).
(Per la storia, Adam è figlio di Leonard Cohen e del suo grande amore Suzanne Ellrod; che, com’è noto, non è la Suzanne della celebre canzone – quella era Suzanne Verdal. E’ nato nel 1973, all’epoca di New Skin For The Old Ceremony, un anno prima della sorella Lorca.)
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