“Ascoltare i Tinariwen è come attingere acqua da un pozzo profondo”, ha detto Robert Plant, ed è un modo efficace di spiegare il fascino di questa musica da un angolo d’Africa.
Il gruppo è noto, la storia l’abbiamo già raccontata; quella di alcuni musicisti dell’Africa occidentale di origine berbera che per anni si impegnano in una sanguinosa lotta per la sopravvivenza della propria etnia contro il governo del Mali e poi, quando la pace è raggiunta pur con ambiguità, da ribelli si trasformano in musicisti. Tassili è il quinto album e il cursus discografico, oltre a decine di show in tutta Europa, hanno senz’altro attutito l’effetto sorpresa; eppure questo ipnotico dondolante “blues del Sahara” all’ascolto continua a essere una dolce droga, con suoni antichi di sabbia e sole e la meravigliosa schiuma della lingua di questo lembo di deserto, il Tamashek.
Tinariwen ormai è una sigla, i musicisti cambiano spesso, ma lo spirito rimane identico e anche il paradosso, scrive Francis Dordor nelle note, “di una musica che vuole raccontare il disagio di un popolo mentre i loro ambasciatori stanno diventando star a livello globale; qualcosa che nel passato è già successo a Bob Marley con i Wailers”. Nonostante il successo internazionale, il gruppo ha deciso di non registrare in Occidente in uno studio attrezzato di tutto punto ma di rifugiarsi in una regione dell’Algeria meridionale, a Janet, già nota alle popolazioni Touareg come base logistica ai tempi della guerra contro il governo centrale. In una tale “solitudine minerale” hanno sfidato vento, sabbia e condizioni avverse per un album tutto acustico e tutto maschile (le voci femminili erano una caratteristica dei dischi precedenti) che suggella la comunione tra il profilo della musica e il paesaggio del deserto.
Quando le registrazioni erano quasi terminate, dicembre dello scorso anno, due membri dei TV On The Radio hanno fatto visita all’improvvisato studio per qualche umile, generosa decorazione. I Tinariwen hanno gradito ed esteso poi la collaborazione a Nels Cline e alla Dirty Dozen Brass Band, inviando i nastri in America per interessanti sovraincisioni. Bello soprattutto il contributo dei Dirty Dozen, Ya Messinagh, con un sorprendente incrocio di blues Touareg e funeral song di New Orleans.(delrock)
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