The Kinks – Deluxe Edition
Kinks
Voto: tre stelle e mezzo
Casa discografica: Universal
Anno: 2011
Dal dizionario 24.000 dischi
Kinks
“Secondo alcune teorie, la nascita del punk rock risalirebbe a La Bamba di Richie Valens. Se considerate quel celebre tormentone mariachi di tre accordi nell’ottica di Louie Louie dei Kingsmen e confrontate poi quest’ultima con You Really Got Me e, allo stesso modo, il pezzo dei Kinks con No Fun degli Stooges e ancora, facendo un altro passo avanti nel tempo, arrivate a Blitzkrieg Bop, scoprirete come il brano dei Ramones assomigli un sacco a La Bamba. Eccoci: vent’anni di storia del rock in tre accordi, ogni volta riciclati e ogni volta suonati in maniera più primitiva.”
In quel librone colpevolemente dimenticato che è La grande storia del rock di Rolling Stone (un vecchio Arcana del 1995), lo zio Lester con uno dei suoi lampi di genio inquadrava bene la situazione. Su quei tre accordi Ray Davies ci ha costruito la carriera, e non lo ha mai negato; perché You Really Got Me è imparentata strettamente con All Day And All Of The Night, con Tired Of Waiting For You, con Set Me Free, con Destroyer, e se vi piacciono i rimandi andate avanti voi. Ma non è questo il tema di oggi, non precisamente. Il tema è la fresca giovinezza Kinks e quell’inno nazionale del popolo rock che una meritoria serie discografica riporta in queste settimane al centro dell’attenzione. Hanno ristampato in deluxe edition i primi tre album dei Kinks e, anche se è tutto ben noto e gli smilzi LP sono già stati da tempo imbottiti di bonus, anche così è sempre un bel sentire e un felice viaggio nel tempo, alle radici di tanto rock oggi classico e indiscutibile.
Io mi fermerei giusto al primo LP e all’inno nazionale appena nominato, estate 1964, muovendo da una paradossale considerazione: com’è che le grandi canzoni della storia rock non nascono circonfuse di gloria e luce ma, tutto al contrario, sono bruttine e mal giudicate quando non rischiano lo strangolamento in culla? E’ la storia di You Really Got Me ma, sempre per restare a Londra negli stessi tempi che ci interessano, è la storia anche di My Generation e Satisfaction. Pete il Nasone scrive quel po’ po’ di capolavoro ma ci mette tempo per capire il ritmo e il piglio giusti, e quando lo pubblica non è così convinto. Il Melody Maker fa poco per confortarlo: “uno dei più controversi 45 di tutta l’annata,” scrive Nick Jones. “Sarà un successo enorme o un terribile flop”. Un terribile flop? Jagger e Richards considerano Satisfaction un brano di prova o poco più e, quando lo sottopongono ai compagni e al manager per decidere se può andare come facciata A, loro stessi votano contro. Forse andrebbe meglio come facciata B, obiettano; o come riempitivo per il prossimo LP.
Anche Ray Davies patisce le sue disavventure con quella Louie Louie per adolescenti britannici. I Kinks hanno fallito i primi due singoli e quella terza prova sembra un giudizio divino – ora o mai più. Lui si impegna alla morte e spara una canzone tutta nervi e grinta; altro che Kingsmen, ha in mente il lontanissimo maestro Mose Allison e il più vicino Georgie Fame, che con i Blue Flames incendia spesso il Flamingo, uno dei suoi locali preferiti. You Really Got Me, nella mente dell’ancora sconosciuto Ray “è una canzone nuda e cruda”, una reazione e, di più, uno schiaffo ai discografici “che insistevano perché suonassimo come i complessi del Merseybeat. Io volevo invece fare qualcosa di diverso, qualcosa che i puristi potessero apprezzare o almeno rispettare. Così la buttai giù di fretta, con quelle parole così semplici che ancora non mi capacito di averle scritte; quattro strofe, non una di più, una canzone contro lo zucchero di Sweets For My Sweet o She Loves You, perché erano quelli i pezzi a cui volevo ribellarmi – e magari era solo invidia, perchè canzoni così io non sapevo scriverle.”
La creatura prende forma un po’ per volta, prima a tempo più lento, poi forte e chiassosa. Quando sembra pronta, viene portata in studio; ma la seduta è disastrosa, il suono caotico, e Ray non può credere al fatto che il produttore Shel Talmy e i discografici diano comunque l’okay. Lo studio costa, ecco la verità, neanche i Beatles hanno troppo tempo per rifare e correggere. Buona la prima, e vada come vada. Ray è sull’orlo di una crisi di nervi, i Kinks sul bordo del baratro: se esce quella porcheria, pensano, non ci sarà futuro. Per fortuna la porcheria non esce. Questioni legali ritardano l’uscita e, con più tempo a disposizione e il martello della sua cocciutaggine, il Davies maggiore riesce a imporre un secondo round. Il Davies minore nel frattempo ha trovato la quadra giusta per la chitarra: che avrà un inaudito sound distorto per via di un fortunoso collegamento tra un amplificatorino a tutto volume e uno più grande al minimo. Così Dave aiuterà il fratello a realizzare il suo sogno: suonare sporco e duro come i Kinks sanno fare dal vivo e come, pare, nessuno è interessato a fare in studio, se è vero che anche i primi di quella classe, i Rolling Stones, in scena suonano da orchi e in sala sfogliano margherite.
Ci vogliono due takes per scolpire quel pezzo di storia, con la paura di sbagliare, la pressione del produttore in sala di controllo e i due sessionmen convocati, il batterista Bobby Graham e il pianista Arthur Greenslade, che guardano l’orologio aspettando il fine turno. Alla fine è una liberazione: Talmy ha liquidato una pratica difficile, la PYE incassa il singolo che voleva e Ray Davies ha l’impressione che dopo quel pomeriggio i Kinks siano cresciuti di tre spanne e lui abbia assunto una nuova identità. “Era come se fossi appena nato,” racconterà nell’autobiografia di X-Ray.
Il singolo ha così tanto successo che la casa discografica chiede un album in tempi stretti. E’ un lusso per quei giorni, anche perché non è pensabile una compilation di successi (che non ci sono) e i ragazzi devono spremere originali e cover che magari hanno provato poco. Ma ce la fanno, passano l’agosto a registrare ai PYE Studios e con la loro testa dura impongono il suono desiderato, vincendo la sfida con i discografici: poco Merseybeat, solo in certi inevitabili fillers (I Took My Baby Home, Bald Headed Woman), e molto beat&blues a gola rossa, con impetuosi assalti ai forzieri di Chuck Berry (Beautiful Delilah e Too Much Monkey Business), Bo Diddley (Cadillac), Don Covay (Long Tall Shorty). Ray Davies ha il cassetto pieno di idee ma, un po’ snobismo un po’ pigrizia, allunga solo qualche monetina; un paio però sono sterline oro (I Just Can’t Go To Sleep e Stop Your Sobbin’) e lasciano intendere che il giovane rivoltoso di Muswell Hill ha colorata fantasia e conosce bene le lingue, non solo l’alfabeto base di Louie Louie.
L’album esce con una bella foto rossa dei quattro in abiti più eleganti che kinky, in eccitante contrasto con il rave party di molte canzoni; sul retro una grande K contiene le note di Sommerville e inaugura il tormentone di quella lettera dell’alfabeto, “per secoli tristemente negletta nella lingua inglese”, che da allora diventerà cruciale nell’immaginario del gruppo – dopo The Kinks verranno Kinda Kinks, Kinks Size, Kinks Kontroversy, Kinks Kinkdom fino a un live in Glasgow opportunamente organizzato alla Kelvin Hall.
Tanti anni dopo, un maestro come Jon Savage spiegherà la filosofia di quella canzone, di quell’album e di quel periodo con parole illuminanti. “Ciò che quei complessi di R&B britannico fecero, fu prendere i messaggi sessuali in codice e la risolutezza sociale della musica nera e utilizzarli con un’ossessività tutta bianca e una carica sovraumana, sostituendo i ritmi spesso esili degli originali con monolitici blocchi di suono – qualcosa come i grattacieli commerciali che proprio in quegli anni spuntavano come funghi per tutta Londra. E ciò che a Talmy e ai Kinks riuscì con You Really Got Me, e con il disco dopo, che affinò la formula, fu inventare un mezzo perfetto per esprimere l’aggressività dei giovani adolescenti bianchi che stava nel cuore della loro popular music, negli anni della sua adolescenza e di una mezza età poi rinviata nel tempo, e artificialmente ritardata.”
Più istintivamente e con meno giri di parole, il grande Burt Bacharach negli stessi mesi definisce “nervotica” la musica Kinks, dopo avere ascoltato You Really Got Me e la sua (quasi) carta carbone, All Of Day And All Of The Night. “Sulle prime mi sembrò una stroncatura,” ricorda Ray Davies “ma poi mi convinsi che voleva farci un complimento. In effetti le nostre erano canzoni di giovani rivolte ai giovani, ossessive e sessualmente possessive – quindi molto nevrotiche.”
NOTA. Hanno ristampato in deluxe edition i primi tre album dei Kinks e ne hanno in programma nell’immediato altri tre: Face To Face, Something Else e Arthur escono nei negozi il 6 di giugno. In estate dovrebbe seguire Muswell Hillbillies.
DELROCK
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