The King Is Dead
The Decemberists
Voto: 4 STELLE
Casa discografica: Capitol Records, EMI
Anno: 2011
Quando nel 2009 uscì The Hazards Of Love, il quarto (cervellotico) (affascinante) album dei Decemberists, il leader Colin Melloy accese un cero al dio del rock e rilasciò una soddisfatta dichiarazione che suonava così: “Quest’album è la apoteosi della mia ossessione con il folk britannico. Mi ci sono gingillato per un sacco di tempo, alla fine avevo proprio bisogno che uscisse. Dentro di me adesso ho un sacco di spazio libero. Sono curioso di vedere con cosa lo riempirò.”
Non c’è voluto molto per conoscere la risposta. Tempo un anno e mezzo, poco di più, e i Decemberists sono tornati con un album che più diverso non potrebbe essere, almeno all’apparenza. Hazards era il frutto di un’indagine paradossale, la ricerca di un passaggio segreto (trovato, nonostante le perplessità di tutti) “fra il revival della musica popolare britannica e il classic metal”; ed era un complicato concept, una densa folk opera dietro cui si profilavano i fantasmi dell’ambiguo Prog britannico. Il nuovo King Is Dead invece è un’ode alla musica di campagna, un manifesto di semplicità per una band che semplice non è mai stata e che dopo tortuosi giri nella propria mente e in vari luoghi del pianeta è approdata vicino a casa, a un granaio appena fuori Portland, Colorado, la città di adozione.
Lì, alla Pendarvis Farm, in un rigoglioso ambiente di prati e foreste con un panorama rigenerante sul monte Hood, i Decembristi hanno lavorato per riempire lo spazio vuoto di cui Melloy parlava, giungendo alla conclusione che forse avevano esagerato con i loro mind games e quella musica di troppe fantasie, troppi incubi, troppe contorsioni, e che la cosa più saggia era fare un po’ di pulizia. “Ce ne siamo accorti girando in tour,” è la candida confessione di Melloy. “D’improvviso Hazards è diventato un peso, e una minaccia per la nostra stabilità . Più lo suonavamo per intero, come ci eravamo ripromessi, e più ci veniva voglia di canzoni normali.”
Quanto è difficile essere semplici per menti così disinvoltamente contorte? Abbastanza, a sentire i diretti interessati. “Sembra un paradosso ma, per quanto fossero complicati i nostri primi dischi, quest’ultimo è stato il più ostico da realizzare. E’ una vera sfida suonare semplice e un sacco di volte abbiamo dovuto limitarci e levare qualcosa per lasciare spazio. E’ stato un esercizio di moderazione.” Alla fine ne valeva la pena. The King Is Dead è la brillante riproposta di un folk rock scivolato ai margini della scena, una sinfonia di ariose armoniche, mandolini gorgoglianti, fiddle e sventolar di fisa che non trovo nemmeno così semplice come i protagonisti vorrebbero, con quel ricco caleidoscopio di umori, con quegli arrangiamenti mai banali.
E’ un ritorno ai suoni d’America, dopo lunghe evoluzioni storiche o di fantasia in territorio britannico, e anziché gli Strawbs e gli Zeppelin gaelici evocati la volta scorsa qui si delineano i fantasmi dei padri storici che alla fine dei ’60 riscoprirono la campagna e le radici popolari come terapia dopo gli eccessi del sex and drugs and rock & roll; Dylan ottimo massimo, i Byrds, Neil Young, la Band, e poi i ragazzi della generazione seguente, i Camper Van Beethoven, i Giant Sand e quei REM che Colin Melloy non ha mai nascosto di venerare, parte della personale Trimurti di musica preferita (gli altri dei sono Smiths e Husker Du).
A proposito di REM, nel disco fa capolino Peter Buck, ad aggiornare il suo record di collaborazioni e a insegnare qualcosa di mai scontato; come d’altronde Gillian Welch, un’altra icona dell’american contemporanea, che mette la sua voce in due fra le canzoni più riuscite, Down By The Water e Calamity Song.
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Si sentono molto i REM in The King is Dead, ma oltre ai per me onnipresenti echi folk britannici c’e’ anche un’armonica che mi pare springsteeniana…dai primi ascolti mi sembra un album maledettamente buono!
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buon album , a me impressiono’ pero’ di piu’ il precedente ,degustibus
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