Double Fantasy
John Lennon
Voto: 4 STELLE
Voto utenti: 5 STELLE
Casa discografica: EMI
Anno: 1980
Dal dizionario 24.000 dischi
John Lennon
Vorrei dire qualcosa su John Lennon in quest’anno di ricorrenze, se vi è rimasta un po’ di pazienza o meglio ancora di curiosità , dopo il pesantissimo ambo 70 e 30 (gli anni dalla nascita e dalla morte) che ci ha rintronato tutti nelle ultime settimane. Per l’occasione hanno ristampato naturalmente tutti i suoi album, restaurati allo state of the art, e a uno in particolare hanno riservato un trattamento speciale. Ottimo, perchè è proprio il disco di cui voglio parlare. E’ l’opera ultima, Double Fantasy, che per una scelta condivisa dalla vedova Yoko e dal produttore Jack Douglas è stato spogliato di molti suoni di studio e mandato a vivere i prossimi anni della sua vita con un umile saio – un John pelle e ossa, che canta con poche chitarre, pianoforte, niente cori.
Questo trattamento può ricordare la ferrea dieta a cui fu sottoposto anni fa quell’album celebre dei Beatles, Let It Be, ma è un’affinità solo apparente. Let It Be era in effetti un album gonfiato a estrogeni, perchè al Boteriano produttore Phil Spector, amato da John e inviso a Paul (quindi perfetto, nella guerra per bande di quei tempi), piacevano i suoni paffuti, i cori adiposi, i multitracce che alla fine premevano sulla testina dell’Ampex fin quasi a storcerla. Double Fantasy no, era un normalissimo disco d’inizio ’80 che badava al sodo delle canzoni senza lavorare troppo sui suoni, l’equivoca strada che la tecnologia stava cominciando a pavimentare proprio in quei giorni. Lennon però, ecco il punto, era insicuro della propria voce e molto si spese, convincendo il riluttante Douglas, per raddoppiare le tracce vocali e acquattarsi, se non proprio nascondersi, nel fogliame della strumentazione. Trent’anni dopo, i curatori di questa naked fantasy sono volati oltre le paure di John e hanno dato più spazio a quella voce, che era sì un po’ incerta per i tanti anni bui passati lontano dalle scene ma sapeva ancora dare emozioni e scosse, eccome.
Nei suoi vent’anni di vita pubblica John Lennon ha mostrato tante facce di sè. Lo facciamo tutti, a ben pensarci, anche se non con la disarmante sincerità o l’arrogante finzione che al nostro amico venivano naturali. Quando ripenso a quei Lennon, una band vera e propria, mi viene da dire che John non suonava nei Fab Four, era i Fab Four: l’utopista, il bullo, l’avanguardista velleitario, l’uomo innamorato e fragile, e dimentico almeno l’estremista politico, l’umorista, il geniale comunicatore mediatico. Ad alcuni di quei Lennon avrei volentieri rifilato schiaffoni, e in qualche modo ai tempi lo feci, irridendo sovente la sua opera oltre i Beatles; ma ogni tanto John era capace di slanci irresistibili e, oggi che lo risento, tutto quel disco, tutto Double Fantasy è una confessione disarmante, e squaderna le paure e debolezze di un uomo ricco e celebre alla soglia della maturità e la sua voglia di amore con la donna che ha scelto, contro tutto e contro tutti.
All’epoca non lo notai, ma subito in cima alle note è scritto che Double Fantasy non è un semplice disco bensì “a heart play”, una messinscena del rapporto amoroso tra i due autori, un personale Cantico dei Cantici fatto di slanci sublimi ma anche di rimpianti, tormenti, durezze molto prosaici. John e Yoko avevano raccontato la loro storia dal primo giorno, anzi, letteralmente dalla prima notte (quella di Two Virgins); in quei solchi tornavano a raccontarla dopo una lunga pausa, da una prospettiva più adulta e meno accomodante, con il fardello di incomprensioni e ferite e una franchezza anche spigolosa, anche imbarazzante (il botta e risposta di I’m Losing You e I’m Moving On). Quell’idea di messinscena non era estranea a Jack Douglas, tutt’altro. Fu anche lui, e lo nota con orgoglio in occasione di queste celebrazioni, “a produrre Double Fantasy come se fosse un film o una rappresentazione teatrale. Tanti anni dopo è sembrato giusto spostare l’opera dal palco, calarla tra gli spettatori; ecco, con la nuova edizione ora siete in mezzo ai due protagonisti e ascoltate il loro dialogo, e potete cogliere precisamente l’emozione che prima era in secondo piano”.
Nei miei disordinati archivi non trovo più la recensione che in diretta feci di quell’album, per una rivista presto svanita, Musica 80! – e forse è meglio così. Credo di non avere nemmeno provato a capire il disco, tutto preso com’ero a deprecare il tempo perduto e a sbeffeggiare un decrepito quarantenne (l’età di qualche “giovane emergente” di oggi, per inciso) che coltivava ancora l’insana idea di fare rock. Mettemmo comunque John in copertina travestendolo da Babbo Natale e l’unico scrupolo ci assalì quando la pistola di Mark Chapman insanguinò il berretto rosso e noi finimmo per uscire in edicola con quella facezia nelle stesse ore in cui le agenzie battevano la tragica notizia dell’omicidio. Erano giorni in cui non c’erano sconti per le rock star, anzi per i “dinosauri”, come si diceva. La loro musica non era ancora diventata venerabile e classica, era solo vecchia, superata; e tanto più John, che continuava a cantare la sua vecchia canzone che il punk aveva sfregiato e la new wave irrideva con ritmi robotici e gesti smodati. L’ancien règime.
Eppure quel non inseguire i tempi nuovissimi oggi mi appare come qualcosa di saggio e dignitoso. John aveva quarant’anni all’epoca e non intendeva nasconderli, voleva un disco da quarantenne che aveva messo su famiglia, perso qualche ormone, messo in riga i grilli nella testa; e se gli emergenti dell’epoca avevano altri modi, se Bruce tuonava con i visceri, Freddie Mercury belcantava, David Byrne sproloquiava come un replicante, John era fiero della sua voce da “Elvis Orbison” e del suo rockabilly evoluto/risaputo, e se li teneva stretti. Meglio lui di Yoko, che al contrario si sbatteva per vestire à la page e dalle boutique disco pop rock aveva recuperato certi abitini da “Grace Jones o la nuova Marianne Faithfull di Broken English o i B 52’s”. Fedele al suo credo originario, John era sempre e comunque, anche da adulto oltre la linea d’ombra, da pluri medagliata pantera grigia, un figlio del rock and roll originale; e fa tenerezza ascoltarlo all’inizio dell’album (una chicca che nel long playing originale non c’era) quando chiama i suoi dei a benedirlo. “This one’s for Gene and Eddie and Elvis,” sussurra al microfono prima di attaccare Just Like Starting Over, “and Buddy!”
Gli dei se lo prenderanno in formazione di lì a poco – giusto il tempo di pubblicare l’album, ricamarci su qualche intervista e progettare il tour del grande ritorno che nessuno organizzerà mai.
R.B.
PS MA LE CARIATIDI EGOPATICHE DI TORINO E MILANO SAREBBERO STATE CAPACI DI SCRIVERE UN ARTICOLO DEL GENERE? CREDO PROPRIO DI NO
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Paul McCartney visited Late Night With Jimmy Fallon Thursday night and paid tribute to the origins of “Yesterday” — which was first called “Scrambled Eggs” — by performing a food-themed reinterpretation of the Beatles classic with Fallon.
McCartney was also inspired to discuss an important moment in Beatles history.
“The Ed Sullivan Show was pretty amazing,” McCartney said. (The Beatles was on the show several times in 1964 and once in 1965.) “I mean, that was… I was standing there waiting to go on, going to do ‘Yesterday’ with a string quartet, and the guy who holds the curtains says, ‘Are you nervous?’ I say, ‘No,’ and he says, ‘You should be.’ ”
Later, McCartney performed “Here Today,” the tribute to John Lennon that appeared on his 1982 album Tug Of War. He prefaced the track by saying, “This is a conversation that we never had. I always say to people, ‘if you want to say to someone you love them, tell them now, ‘cause, you know, there may come a point when it’s too late, and you think, ‘I wish I’d said that.’ ” (An audience member replied with an “I love you” of her own.)
http://www.latenightwithjimmyfallon.com/video/paul-mccartney-sings-scrambled-eggs-the-original-yesterday-12910/1264343/
http://www.latenightwithjimmyfallon.com/video/paul_mccartney_here_today_12910/1264394
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