Conosco Frank Zappa da trentacinque anni, poi vi racconterò dove e quando l’ho incontrato la prima volta. Ho tutti i suoi dischi, in tre copie, lo sciagurato me li ha fatti comprare in vinile, in cofanetto e poi in cd. Ho ascoltato migliaia di ore sue, compresi certi bootleg da take awaycinese, tanto il vinile friggeva. Ho letto i suoi testi, ho tradotto la sua autobiografia. Ma se mi chiedete di spiegarvi in poche parole, precisamente, chi è Frank Zappa, be’, mi riesce difficile, mi vengono i dubbi. Mi viene da dirvi che è un mondo così vasto, anzi, un Universo. Anni fa hanno dedicato a Zappa un tributo non molto bello ma con il titolo giusto, proprio così: Zappa’s Universe.
Se la stessa domanda però me l’aveste fatta trent’anni fa, avrei risposto sicuro e baldanzoso. Lo sapevo bene, chi era Frank Zappa, credevo certissimamente di saperlo, e se devo dire la verità lo avevo capito addirittura prima di ascoltare una sola nota di lui. Entrando in un negozio, un giorno dell’estate 1968, e vedendo lì, primo della fila, che mi aspettava, che mi chiamava, Freak Out! delle Mothers Of Invention. Quella foto solarizzata di Ed Caraeff con lui che sembrava un orso psichedelico, quelle facce da cospiratori anarchici, da Bakunin dell’ underground,quell’aria di mistero e carboneria. Credetemi, era già segnato tutto nella copertina. E la cosa buffa, ma poi in fondo logica, è che Zappa aveva vissuto una folgorazione identica con il suo idolo musicale di gioventù, Edgar Varèse. Io allora non lo sapevo, l’avrei poi letto in un bellissimo, divertentissimo articolo – Zappa è stato anche questo, un ottimo scrittore, un grande affabulatore. E quella volta raccontava che era entrato in un negozietto di quartiere e come in un sogno aveva trovato il disco di quel personaggio di cui aveva favolosamente sentito parlare – e la copertina era perfetta, era proprio «il suo uomo», «aveva l’aria dello scienziato pazzo e io ero contentissimo che qualcuno si fosse finalmente degnato di fare un disco con uno scienziato pazzo». Quindici anni dopo, Zappa era passato dall’altra parte, era entrato lui nel disco, ma il gioco era lo stesso. Credo che la mia esperienza non sia stata unica: la musica che si nascondeva sotto quella copertina non poteva che essere straordinaria, e in quella maniera lì.
Da quel giorno, io ma non solo io, diciamo l’ala freak della mia generazione, pretese di sapere benissimo chi era Frank Zappa. Era l’angelo sterminatore delle ipocrisie e delle censure amerikane, scritto con il kappa, quello che le cantava in faccia ai potenti e smascherava le loro bassezze; era un rivoluzionario, e di una specie mai vista, che proponeva una rivolta sociale partendo dai «diversi» e dai «bizzarri»; era il Grande Matto della Nouvelle Cuisine musicale, che cucinava «sughi grumosi», «lumpy gravy», leggendo al contrario le ricette dei grandi cuochi prima di lui e usando misteriosi pimienti che bruciavano la gola e aprivano la mente. Era la musica totale. Era l’immaginazione al potere. Tanto sicuri eravamo di conoscerlo, e tanto presi da lui, che lo facemmo diventare a nostra immagine e somiglianza. Così i rivoluzionari di quegli anni erano certi che Zappa fosse uno di loro, uno yippie alla Jerry Rubin se non proprio un marxista leninista di stampo europeo: mentre gli appassionati di «additivi», chiamiamoli così, davano per scontata la sua adesione a quel movimento e solo si dividevano sul tipo di droghe che usasse – fumava soltanto o prendeva anche acidi?
Zappa naturalmente era ignaro di questa sua «nuova identità », anzi, di queste molteplici identità , anche se poi in realtà gli stava bene: l’importante era farsi notare, uscire dal ghetto, a costo di essere perseguitato per anni per esempio da quella foto scattata sul cesso, con i pantaloni abbassati, che voleva essere una provocazione e diventò invece un tormentone a uso soprattutto degli avversari – di solito erano i genitori: «Guardalo lì il tuo Zappa – che schifo!» Oppure quella bufala famosa, ricordata subito all’inizio dell’«Autobiografia», di una sua gara sul palco con Captain Beefheart a chi mangiava più merda in pubblico. Io ne sapevo un’altra, molto meno pulp: Zappa che comperava il Manuale di Armonia per divertirsi a fare tutto il contrario. Il fatto è che tutto quello di strano, di eccentrico, di scandaloso ci capitava di scoprire, ma non solo nella musica, proprio nella vita, in due mosse veniva ricondotto a Zappa, che a quel punto smetteva di essere una persona in carne e baffi e diventava un personaggio virtuale, un modo di dire, un ipse dixit o fecit.D’altronde, chi la fa l’aspetti. Vi butto lì una pulce grande come questo tavolo, che ho nell’orecchio da anni. Voi sapete che Mothers Of Invention deriva da una frase celebre, «la necessità è la madre dell’invenzione». L’hanno scritto tutti, fin dall’inizio, che la frase è di Platone. Bene: chi l’ha mai verificato? Mah. Poi magari qualche ultra zappiano in ascolto mi smentisce ma io ho l’impressione che quella frase Platone non se la sia mai neanche sognata. Portatemi il Dialogo che la contiene, così mi levo la pulce. Altrimenti devo pensare che anche Zappa ricorresse alle approssimazioni mitologiche e che Platone fosse un suo leggendario «modo di dire».
In realtà , torniamo al punto, Zappa non leggeva il Manuale di Armonia al contrario,non mangiava merda sul palco, non era di sinistra, non faceva «alternativa», nonfumava gli spinelli; e naturalmente lo diceva, nelle interviste che noi naturalmente noi non leggevamo. E si spiegava anche nei dischi, ce n’era uno proprio lampante,We’re Only In It For the Money, con quella parodia rovinosa del Sgt. Pepper’s che veniva esattamente rovesciato, in tutti i sensi. Ma noi non volevamo capire. Noi amavamo quelle musiche messe alla berlina, non solo i Beatles ma anche il flower power di San Francisco, e ci opponevamo alla realtà con un ferreo sillogismo – se noi amavamo la psichedelia e amavamo Frank Zappa, ergo Frank Zappa amava la psichedelia. Questa sì che è Grecia autentica, questo è Aristotele. Verificato. Io ricordo benissimo quando finì questa buffa storia, questa appropriazione indebita di Frank Zappa. Almeno per me, ma credo non solo per me. Fu nel 1973, quando Zappa venne in Italia con il suo straordinario gruppo del periodo, quello con George Duke e Jean-Luc Ponty, e tenne un bellissimo concerto a Bologna. Quel giorno non c’erano le televisioni, non c’era Gianni Minà , non c’era Red Ronnie – che bello…
C’erano però tutti gli zappiani tutti, nessuno escluso, usciti dalle catacombe del loro culto per conoscere veramente, vivo live, il loro idolo. E tutti volevano non solo ascoltare la musica ma incontrarlo e raccontargli i fatti loro perché, come ho spiegato, era un amico intimo, era uno di famiglia. E quale fu lo stupore, tanto per cominciare, nello scoprire che Zappa non stava nell’alberghetto naif di fianco alla stazione ma in una suite del Grand Hotel Baglioni di corso Indipendenza, il più bello e rutilante di Bologna, con gli stucchi, le tende rosse e un portiere isterico e un po’ checca che non faceva passare nessuno perché «il signor Zappa sta riposando». Io ricordo, oggi fa sorridere ma quelli erano tempi ingenui, ricordo lo sconcerto di questi fans e la sensazione di uno incredibile equivoco che lì andava in frantumi; un equivoco che si era trascinato per anni e aveva impedito a tutti di cogliere Zappa nella sua realtà . Lo avevamo imbrigliato, ecco quanto, gli avevamo messo una divisa, un’armatura, portandolo in un paese della fantasia a quel punto lontanissimo dal vero. Io fui molto fortunato, riuscii con le giuste sponde a valicare il servizio d’ordine e a essere ammesso nella sua stanza per una specie di intervista. Dico «specie» perché io gli facevo domande lunghissime con risposta incorporata, che avevo impiegato giorni a elaborare e correggere, e lui rispondeva a mozzichi o monosillabi, guardandomi con aria vagamente stranita mentre dondolava la testa in quella sua caratteristica maniera – e comunque anche così, asciutto minimale, smontava tutte le mie illazioni, tutte le fantasticherie su di lui. E il culmine lo raggiunsi quando alla fine gli domandai se volesse dire qualcosa al pubblico, a quei fan che smaniavano di vederlo in scena dopo anni di sogni e basta. E io mi aspettavo un messaggio profondo, uno slogan a effetto, erano anni di messaggi e di slogan. E lui molto pacatamente rispose: «Sì, vorrei dirgli: state seduti, non fate casino. Ascoltate la musica. Sit down, please». Ecco, io quel giorno credo di aver smesso di conoscere Zappa, per fortuna, e di avere cominciato a studiarlo sul serio, a cercarlo: con i risultati di dubbio e di incertezza che ancora ho, ma va benissimo così.
Quel che ho capito di sicuro è che Zappa va preso nella sua complessità , e va seguito per le sue strade, non le nostre – anche incoerenti, anche fuori pista, anche all’apparenza contradditorie. Non c’è uno Zappa buono e uno cattivo, ecco, uno progressista e uno conservatore, uno colto e uno ridanciano, come ci sembrava di capire quando Uncle Meat e Hot Rats sì, 200 Motels e Overnite Sensation no. C’è uno Zappa solo, «universale» come abbiamo detto, la cui grandezza sta anche proprio nell’aver mescolato linguaggi diversissimi e nell’aver praticato, senza soluzione di continuità , e senza alto o basso, la ricerca musicale e l’umorismo da cabaret, il rock heavy e la nostalgia doo wop, accostando Stravinskij con leSupremes, le Ionisations di Edgar Varèse e Stairway To Heaven degli Zeppelin. Questo Zappa è quello vero e ha passato la vita, con la cocciutaggine del suo sangue misto siculo-anglosassone, a tirare avanti nonostante tutto, perché sapeva benissimo, lui lo sapeva fin dall’inizio, dove voleva arrivare. E in questa sua «lunga marcia» è stato inflessibile e ci ha sempre detto: prendere o lasciare. Tutto insieme. Gli album storici e le esagerazioni chitarristiche, le battaglie contro le case discografiche e i pasticci da indipendente, le campagne per la libertà di manifestazione del pensiero e certe proteste sociali da Uomo Qualunque. Prendere o lasciare. Per carità , chi può permettersi di lasciare un tipo così? Così ho imparato a prendere anche i lati di Zappa che proprio all’inizio non digerivo, come una paradossale medicina. I suoi musical, per esempio, per cui ho nutrito per anni un’avversione paragonabile a quella che provo per le uova sode: ma che poi, alla fine, rivelano comunque un aspetto importante e peculiare del personaggio. O il suo amore accanito, ma forse sarebbe meglio dire «la fissazione», per quello che lui definiva «antropologia sociale» – decine e decine di pagine, e canzoni, dedicate all’infinita tipologia degli stupidi o dei fuori zucca di questi anni e di questa America: cosa che mi è sempre parsa una curiosa e monumentale perdita di tempo ma poi, vista nel suo complesso, è una galleria che ha un suo fascino e una sua imponenza, una sorta di Louvre della minchioneria umana che l’Unesco potrebbe anche patrocinare.
E ancora: la musica orchestrale. Zappa era un musicista coltissimo, anche senza darlo a vedere, ma per anni fu equivocato come un parvenu che dal rock emigrava, con la bacchetta in mano, verso musiche più «alte» alla ricerca di un riconoscimento e di una giustificazione. Che errore colossale, e stupido. Anche qui aveva ragione lui: ed è bellissimo, io lo trovo un risarcimento del destino, che abbia chiuso la sua carriera con una splendida opera orchestrale finalmente come voleva, con un complesso degno di lui, l’ Ensemble Modern, concludendo un inseguimento durato quarant’anni – era poco più di un ragazzo quando aveva scritto la sua prima partitura orchestrale, e sembrava una stranezza mentre era molto semplicemente la suamusica ideale. Ecco, Zappa è questo nodo intricato e colorato, e non vale scioglierlo. Prendere o lasciare. E nel «prendere» ci sono cose straordinarie: la sua indipendenza di giudizio, fuori da ogni convenzione o moda, la sua cocciuta autonomia, l’originalità che lo accomuna ad altri isolati visionari del Novecento americano - Harry Partch, John Cage, Sun Ra, Ornette Coleman. Non sono quelli che vendono i dischi o che appaiono spesso in tv ma sono quelli che vedono in lungo e hanno i pensieri più forti, e sono loro che spostano l’asse di rotazione della musica, anche se non ce ne accorgiamo subito. Non sono gli Strokes o i Chemical Brothers, e neanche i REM o gli U2. Ma una cosa ancora, l’ultima, giuro, lasciatemela dire su Frank Zappa.
È stato un musicista divertente, ci tengo a sottolineare questo termine – ho sorriso, ho riso tanto con Frank Zappa, ho liberato quelle bellissime energie di gioia e godimento che troppo spesso la vita ci fa seppellire in fondo in fondo; con i suoi personaggi buffi, con Ronny e Kenny e le loro colture nei pitali, con il bandito dell’Illinois armato di clistere, con il diavolo che si mangia la ragazza e il boccale, «tette & birra». Ma anche con la musica; pensate al gas esilarante di Peaches En Regalia, alle vocine accelerate di Uncle Meat Variations, alle falsificazioni doo wop tipo Wowie Zowie o I Have Been In You. Anche Zappa si divertiva. Non dimenticherò mai la sua ultima apparizione pubblica, a Francoforte, con l’Ensemble Modern, la sera del terzo concerto. Era già molto malato, aveva sul viso i segni di una tremenda sofferenza, i capelli grigi e sfibrati, ma fu capace di partecipare a un pezzo di irresistibile humour come Welcome To United States, dirigendolo con un berrettuccio da bambino in testa. Questo divertimento ha segnato il mio spirito e la mia vita, e sono sicuro che chi mi legge qui può dire la stessa cosa. Può dire quello che Jorge Luis Bòrges scrisse un giorno di Robert Louis Stevenson, l’autore dell’Isola del tesoro, e qui faccio filotto, perché con un solo spago riesco a legare tre dei miei eroi preferiti. Borges scrisse: «Robert Stevenson è stato per me una delle forme della felicità umana». E io, devotamente, gli rubo la frase e senz’altro la applico al mio, al nostro amatissimo eroe. «Frank Zappa è stato per me una delle forme della felicità umana».RB
Related Articles
No user responded in this post
Leave A Reply