Il 9 settembre usciranno i dischi dei Fab Four in versione rimasterizzata
e rinnovata tecnologicamente. Li abbiamo ascoltati in anteprima
Beatles Day, i tredici album
rivivono con il digitale
dal nostro inviato GINO CASTALDO
A raccontarcelo sono gli stessi tecnici che si sono sobbarcati l’immane lavoro. Sono loro che ci guidano negli studi di Abbey Road, e ci portano nel piccolo Studio Tre, quello dove i Beatles usavano mixare i loro dischi e incidere piccole parti solitarie, lo stesso dove Paul, come ci ha raccontato, all’epoca del Doppio Bianco se ne andò un giorno per registrare tutto soloWhy don’t we do it in the road. Allan Rouse è il coordinatore del team di sei esperti che ha realizzato il progetto. “Ci sono voluti quattro anni” spiega, e nella sua voce si avverte il peso della responsabilità . Qui del resto ogni centimetro trasuda storia della musica. A ogni passo sembra di calpestare canzoni memorabili, suoni depositati sui muri, vecchi banchi di missaggio lasciati nei corridoi che magari hanno trattato Dark side of the moon oRevolver. “Un tempo molto lungo, considerando che normalmente per masterizzare un disco ci si mettono un paio di settimane. Ma qui era tutt’altra storia, anzi, era la storia. C’è voluto molto tempo per la preparazione, per il restauro dei nastri analogici, il passaggio in digitale e infine per il lavoro di masterizzazione vero e proprio”.
Quello che ha tolto il sonno ai sei tecnici che hanno impostato il lavoro su un principio molto semplice: ogni scelta doveva essere approvata all’unanimità . Non saranno stati i vent’anni del restauro della Sistina, né i quaranta circa necessari alla cura dei manoscritti del Mar Morto, ma di sicuro sono stati quattro anni intensi e pieni di ostacoli di ogni genere. Tredici dischi, per complessivi 525 minuti di musica, che rappresentano il più colossale monumento musicale del Novecento, per un lavoro lasciato unicamente sulle spalle dei tecnici. E i Beatles? Non hanno messo bocca Paul, Ringo, e gli eredi Yoko e Olivia per la parte di Lennon e Harrison? “No”, spiega Rouse, “la scelta della Emi, in accordo con i quattro, è stata quella di affidare a un comitato di tecnici il lavoro”. Ma sono d’accordo col risultato? “Il telefono non ha mai squillato, quindi devo presumere che siano d’accordo”. E se avessero chiamato? “Beh allora saremmo stati nei guai”.
Rouse risponde con flemma britannica, ma nella sua voce si percepisce la consapevolezza di avere messo mano al suono dei Beatles, al primo vero ritocco operato dopo quarant’anni (con l’eccezione dei rimissaggi in 5.1 per le colonne sonore dei film e la controversa operazione di Let it be naked), qualcosa come mettere mano alle partiture di Mozart (visto che nella cultura pop i master sonori sono l’equivalente delle partiture della musica classica) con l’ambizione di migliorarle, senza ovviamente tradire l’intenzione originale. “Questo è stato il problema più grande”, spiega Rouse “si trattava ogni volta di decidere sui difetti di registrazione, le “s” sibilanti, i colpi al microfono, cercando di capire se fosse giusto o meno intervenire, se fossero parte integrante del risultato artistico. E poi c’è il suono. A volte ci sembrava di spingerci troppo avanti e dovevamo fare un passo indietro, altre volte eravamo troppo legati all’originale. Ma credo che alla fine il risultato sia abbastanza equilibrato”. E deve esserlo davvero se i Beatles non hanno protestato. I loro dischi sono ora pronti alla sfida della contemporaneità .
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