George O’Dowd ha una pellaccia dura che non diresti mai. Si truccherà anche da donna, e alle volte si presenterà agghindato come un lampadario, ma il suo istinto di sopravvivenza è forte e caparbio come pochi altri. La riprova? In oltre 30 anni di carriera, l’ex-Culture Club si è autodistrutto e ricreato più e più volte, sia stilisticamente che nella vita privata. Si è fatto un baffo del costante insuccesso di pubblico e delle critiche che hanno accompagnato gran parte della sua carriera solista, e non ha mai rinnegato un decimo della sua nota schiettezza per piegarsi al volere di altri (anche quando magari avrebbe potuto cedere un pochino). Del resto, il suo idolo indiscusso è il Camaleonte Supremo David Bowie, e da adepto storico qual è, Boy George non può che prenderne spunto. Certo, a questo giro la ripresa è stata molto più lenta del solito, perché la caduta è stata decisamente profonda.
Per più di un lustro – dal 2004 al 2010 circa – Boy George era stato dato per spacciato, e non tanto da un punto di vista artistico, quanto proprio per la sua salute fisica e mentale, che ce lo aveva mostrato in condizioni a dir poco preoccupanti. Dapprima era stato il comportamento erratico e confusionario mostrato in più di un’occasione, e successivamente il tanto chiacchierato arresto e il conseguente incarceramento, a portare all’attenzione dei media una caduta agli inferi degna di Britney o Whitney Houston. Il capolinea sembrava dannatamente vicino.
Invece, il camaleonte non si è dato per perso. Dapprima ci sono state un paio di collaborazioni importanti (Antony Hegarty, Mark Ronson), alle quali è seguita la pubblicazione di “Ordinary Alien” nel 2010, un disco di pura electro-dance che mostrava già segni di guarigione, ma anche tante cicatrici non ancora rimarginate. Più propriamente, però, sono stati la sua bellissima cover di “Video Games” di Lana Del Rey nel 2012 e il featuring su “Coming Home” dei nuovi compagni di etichetta Dharma Protocol di quest’anno a dare il giusto indizio: Boy George ha risollevato lo sguardo al cielo, e sta tornando. Ha perso una tonnellata di peso, ha smontato il trucco eccessivo e si è pure fatto crescere la barba come mai prima d’ora. La sua voce si è fatta più calda, roca ed espressiva che mai. L’ex-cantante blue-eyed soul si è trasformato in un vissuto e provato bluesman a tutti gli effetti – e le sue vicende biografiche lo dimostrano.
Il titolo del nuovo album, “This Is What I Do”, è altamente esplicativo; Boy George ci tiene a ricordare che non è mai veramente scomparso, ma si è tenuto sempre impegnato in mille progetti diversi (cosa peraltro vera). Però un disco del genere George non l’aveva mai fatto: quasto è in assoluto il lavoro più calmo e riflessivo da lui mai inciso, e i testi sono il vero specchio della nuova anima. Come la quasi-connazionale Sinéad O’Connor (Boy George è nato a Londra, ma ha origini irlandesi), l’ex-leader dei Culture Club ha avuto le sue continue crisi di religione, e oggi la sua ritrovata fede buddista sembra tingersi di un cristianesimo sudista dai curiosi risvolti rastafari, quasi fosse il punto di arrivo di un lungo e personalissimo viaggio iniziato ormai più di 20 anni fa, quando “militava” nei disco-hare krishna Jesus Loves You.
Musicalmente, la nuova reincarnazione si veste di accenni blues in arrivo direttamente dal Delta (“Bigger Than War”), garbati ritmi reggae (“Live Your Life”, “Love And Danger”) e riverberi dub (“My Star”, il bizzarro esperimento “Play Me” e “Feel The Vibration” che rimanda direttamente a “Throw Down Your Arms” della O’Connor). Non mancano gli accenni gospel (“My God”, ovviamente), e un impasto di chitarre acustiche che riporta alle polverose atmosfere della tradizione americana, per intonare un vago passo di country (“It’s Easy”) o immacolate ballate quali “Any Road”, che sembra cantata da Michael Stipe, e la dolente e bellissima cover di “Death Of Samantha” di Yoko Ono. Dice poi che il singolo – “King Of Everything” – non sia in realtà una riflessione autobiografica, ma dedicata piuttosto a un boxer decaduto (come mostra anche il video), ma onestamente è impossibile non trarre paralleli tra le liriche della canzone e il recente trascorso di vita del suo autore. “E’ proprio per questo che l’ho scelto come primo singolo”, racconta Boy George , “perché sapevo che si sarebbe parlato di allusioni autobiografiche e così ho deciso di mettere le mani avanti da subito, un po’ come quando Dolly Parton scherza sulle sue tette”. Se lo dice lui…
Maturo e posato sono due aggettivi che non mi sarei mai sognato di scrivere riguardo a un disco di Boy George – visti i precedenti – eppure sono i primi a venirmi in mente. E’ la pura semplicità il punto di forza di “This Is What I Do”, e anche una carriera schizofrenica come quella del suo autore alle volte necessita di un punto fermo per tirare il fiato. Poi, si può anche notare che, musicalmente parlando, è stato fatto indubbiamente di meglio in passato, e con tutta probabilità questo nuovo lavoro non sarà uno smash hit stile “Colour By Numbers”, ma il punto non è questo. Quello che è veramente bello è constatare che Boy George si è redento, ed è tornato con un disco solido, maturo e interpretato con sentimento, ma sempre dannatamente onesto come da copione. Indubbiamente, un bel modo per celebrare 31 anni di carriera.
Related Articles
No user responded in this post
Leave A Reply