ECCO UNA BELLA “PANORAMICA” DI ONDAROCK SULLA BAND DI GLASGOW.
“If I had to pick one of our albums to save from a fire
I’d say The Man Who without a doubt,
it rescued me at the time I needed rescuing”
(Fran Healy)
Se pensiamo alla Scozia, agli anni Novanta e al pop, difficilmente possiamo sfuggire a due nomi in particolare: Belle & Sebastian e Travis. Stuart Murdoch e Fran Healy, cinque anni di differenza fra i due, sono le facce di una nazione che ha saputo – e sa tuttora – tenere testa alla più altolocata Inghilterra, arrivando anche a essere talvolta un riferimento per i musicisti d’Albione. Coldplay e Keane, tanto per fare un paio di nomi, devono più di una nota a questa band formatasi sui banchi di scuola della Lenzie Academy di Glasgow. Ironia della sorte, uno dei fondatori dei Travis, assieme al fratello Geoff, fu tale Chris Martyn: entrambi i fratelli usciranno dalla line-up della band prima delle registrazioni del primo disco.
Procediamo con ordine però: siamo all’inizio degli anni 90 e, assieme ai due fratelli Martyn, uno dei primi nuclei della band comprende Andy Dunlop e Neil Primrose. Fran Healy, giovane studente di una scuola d’arte, entra a far parte della formazione qualche mese dopo, sostituendo la prima cantante Catherine Maxwell e diventando nel giro di un anno il paroliere e compositore del gruppo. Nonostante alcuni positivi riscontri e gli occhi degli addetti ai lavori puntati su di loro, i Travis non sembrano essere in grado di decollare. Il momento sliding doors è però dietro l’angolo e arriva sotto le sembianze di Niko Bolas, ruvido produttore americano (Neil Young) che, sentendoli alla radio, decide di portarli in studio e dare loro qualche consiglio. Da questa sessione di registrazione nasce una demo-tape, contenente “All I Want To Do Is Rock”: sarà proprio questa canzone a catturare Charlie Pinder della Sony. I Travis sono pronti a trasferirsi a Londra, ma senza i fratelli Martyn: nella band entrerà Dougie Payne, il miglior amico di Fran Healy, come bassista. Payne non ha mai suonato il basso prima di quel momento.
L’anno è il 1997 e la bomba Oasis è già deflagrata: nella scena britpop, già parecchio in fermento, entrano anche Fran Healy e soci all’esordio con Good Feeling. I Travis devono più di una semplice influenza alla band dei fratelli Gallagher e il loro primo album ne è la prova: mai più infatti i Travis avranno un suono sporco, a tratti gracchiante, come in questo periodo. In fondo Healy lo dice chiaramente: “All I want to do is rock”. E in effetti è proprio di questo che si tratta, strizzando l’occhio non solo ai recenti Oasis, Stone Roses o Weezer, ma anche a padri nobili come i Beatles (“Tied To The 90’s”) e i Kinks.
I brani migliori sono certamente quelli più ritmati: “U16 Girls”, “Happy”, le già citate “All I Want To Do Is Rock” e “Tied To The 90’s” sono tutti esempi di singoli rappresentativi di quel determinato periodo e, anche per questo, riusciti. Deboli invece le ballad, uno dei punti di forza dei Travis del futuro, ma qui ancora piuttosto inconsistenti, con Healy ancora alla caccia della piena maturità.
Prodotto da Steve Lillywhite (Talking Heads, U2, Xtc), Good Feeling è un successo di critica più che commerciale (nello stesso anno usciranno “Ok Computer” dei Radiohead, “Be Here Now” degli stessi Oasis, “Hurban Hymns” dei Verve) e permette alla band di ottenere alcuni importanti spot in apertura ai Gallagher, sponsorizzati dallo stesso Noel che diventerà presto un forte sostenitore dei colleghi scozzesi.
The Man Who arriva due anni dopo l’esordio e sembra ricalcare le orme del disco precedente: accoglienza tiepida del pubblico e pochi passaggi in radio. La critica bastona un po’ il gruppo per aver abbandonato la patina rock di Good Feeling abbracciando un mood più malinconico e riflessivo. Non a caso, la mano dietro questo lavoro è quella di Nigel Godrich e alcuni richiami ai Radiohead sono piuttosto espliciti (“The Fear”). In realtà molte canzoni presenti in questo disco sono nel cassetto di Fran Healy già da diversi anni, alcune dal periodo pre-esordio, altre subito successive.
Non c’è bisogno di molta fantasia per capire quale canzone abbia ispirato “Writing To Reach You”, primo singolo estratto: “The radio is playing all the usual/ and what’s a wonderwall anyway?” è più che un indizio. The Man Who è il lavoro migliore della band scozzese: hook orecchiabili e testi ironici quel che basta per stemperare l’amosfera malinconica dell’album. La virata verso un sound più melodico non porta al successo immediato: anche qui il fato ci metterà lo zampino, sotto forma di acquazzone. La location è quella di Glastonbury e l’anno è il 1999, i Travis sono su un palco secondario e nell’esatto momento in cui intonano “Why Does It Always Rain On Me?”… scoppia un temporale con i fiocchi. L’episodio fa il giro d’Inghilterra e le radio cominciano a riproporre la canzone continuamente, con il risultato che i Travis diventano una real thing.
Un controsenso vero è quello che porta il titolo del terzo album in studio: The Invisible Band è da subito un grosso successo commerciale, vendendo in poche settimane più che il suo predecessore in un anno e mezzo. I Travis sono primi in classifica in Inghilterra e grazie al singolo “Sing” conoscono la fama mondiale; la canzone è un vero tormentone anche in Italia, con il relativo videoclip – dove la band ingaggia una vera e proprio battaglia del cibo – che viene trasmesso in continuazione su Mtv e affini. La scena sarà replicata poi in una ormai famosa puntata di Top Of The Pops Uk.
L’album è un passo avanti dal punto di vista della produzione e degli arrangiamenti, certamente più complessi (anche qui dietro a tutto c’è Nigel Godrich), ma manca quella spontaneità che caratterizza i primi due lavori. Il cantato di Fran Healy maschera un po’ le soluzioni non particolarmente argute, a volte artificiose, giocando con il falsetto e risultando comunque sempre incisivo. I Travis si smarcano dai loro ispiratori Oasis, proponendo una formula più “classica”, che si rifà alla tradizione britannica, in primis Sir Paul McCartney, sfruttando quel senso della melodia che di certo non manca al gruppo. Seguendo il filo conduttore che lega brani come “Sing”, “Side” e “Flowers In The Window”, si nota una coesione di fondo maggiore rispetto a The Man Who, che svetta per qualità media delle canzoni ma difetta di scorrevolezza. La pop-song che viaggia sul filo della malinconia e del romanticismo sembra ormai la dimensione in cui i Travis si trovano più a loro agio, dimostrando anche di aver raggiunto una certa maturità nella scrittura dei brani.
I connotati dell’invisibilità musicale fanno capolino nell’episodio successivo della discografia della band: 12 Memories viene registrato dopo il brutto incidente capitato a Neil Primrose, che gli procura una bruttissima lesione alla colonna vertebrale, rischiando la paralisi. Fortunatamente il batterista si riprenderà completamente dopo alcuni mesi, riprendendo il proprio posto dietro le pelli. L’incidente influenza con tutta probabilita il mood più scuro del disco, con i Travis che ritrovano le chitarre, ma abbandonano i momenti di leggerezza che li hanno sempre contraddisti (e anche portati al successo) per puntare su tematiche sociali. Il problema del disco non sta tanto negli argomenti (povertà, pace, la politica delle grandi nazioni), quanto nella loro trasformazione in musica: i Travis si muovono sopra trame musicali grigie come la copertina dell’album, prive di spunti particolari e in larga parte dimenticabili.
“The Beautiful Occupation”, “Peace The Fuck Out” non arrivano a destinazione perché piuttosto banali anche nei messaggi lanciati (“Please don’t give up/ You have a voice, don’t lose it”). Certo quando i Travis fanno i Travis e le melodie godono di un respiro più ampio (“Somewhere Else”, “Walking Down The Hill”) le cose migliorano, ma sono solo spiragli di luce dentro una stanza buia.
L’album, complice il credito guadagnato dagli scozzesi negli anni precedenti, va comunque bene, ma l’anno successivo viene surclassato dalla raccolta Singles, contenente i singoli dal 1997 al 2004 e due inediti. I Travis, nel frattempo, continuano a trasmettere l’immagine della band impegnata, partecipando al Live 8 e manifestando davanti alla casa del primo ministro Tony Blair, con il leader Fran Healy promotore di diverse campagne benefiche e di sensibilizzazione sociale. Musicalmente però sembrano indossare i vestiti di altri: nonostante la critica li avesse battezzati, assieme ai Coldplay, come eredi dei Radiohead, è ormai chiaro che i Travis siano una band più emotiva che sperimentale e ricercata. L’invisibilità evocata nel terzo album pare calare pian piano sui quattro scozzesi, che dopo aver pubblicato quattro dischi in sette anni, dimostrando una notevole prolificità, aspetteranno ben quattro anni per ripresentarsi sulla scena.
Il ritorno, piuttosto atteso, avviene nel 2007 con The Boy With No Name e seppur non introducendo particolari elementi di novità nella band, fa tirare un lieve sospiro di solievo. I Travis sono ancora vivi, riabbracciano le sonorità di The Invisible Band e l’attitudine che gli avevano fatto guadagnare l’attenzione e l’affetto di molta gente Ritrovano inoltre quel Nigel Goodrich che tanta fortuna aveva portato al gruppo agli inizi. Il disco, che deve il nome all’incapacità di Healy e consorte di decidere il nome del figlio, segue gli stilemmi più cari al gruppo, ballate gentili dove Healy racconta di relazioni travagliate (“Battleships”, “Closer”), poche accelerazioni e qualche tuffo nei Novanta (“Under The Moonlight”).
Il mood ombroso è stato definitivamente accantonato, anche se dietro ai brani più movimentati come “Selfish Jean” – che ci ricorda alcune produzioni dei Belle and Sebastian – si nasconde sempre una certa dose di amarezza.
L’album si perde nel finale, piutto privo di spunti e stecca in alcuni episodi centrali (“Eyes Wide Open”), risultando invece più convincente là dove semplicità e ironia prendono il sopravvento. The Boy With No Name è un disco soddisfacente, che non aggiunge nulla di particolare alla storia del gruppo, ma che contiene melodie ottime, pienamente in linea con lo stile-Travis.
Nel 2008 arriva subito un nuovo disco, scritto e registrato volutamente in quattro settimane chiamato Ode To J. Smith. Proprio quando si pensa agli scozzesi come “prevedibili”, eccoli che spiazzano con un secco ritorno alle origini, sulla scia dell’esordio Good Feeling. Chitarra elettrica con un ruolo centrale e un’aggressività che fa a pugni con l’immagine lasciata dalla band finora. Se Good Feeling interpretava bene lo spirito di quei tempi, Ode To J. Smith risulta al contrario un disco piuttosto inespressivo, a partire dal singolo “J. Smith”, che vorrebbe trasmettere un senso di grandezza e invece risulta piuttosto pomposo e artificiale. Evidenti sono gli echi di Oasis (“Long Way Down”) e Stereophonics, ma il tentativo di risultare accattivanti e competere sul terreno di band come Keane e Coldplay, che quell’anno faranno uscire rispettivamente “Perfect Simmetry” e “Viva La Vida Or Death And All His Friend”, risulta alla fine un mezzo fallimento. A fare metaforicamente a cazzotti è anche la voce di Healy su questo tipo di brani, quasi un corpo estraneo.
Non tutto è da buttare in realtà, come il pop orchestrale di “Before You Were Young” o il secondo singolo “Song To Self”, decisamente più nelle corde del gruppo, che diventerà uno dei pezzi più apprezzati dal pubblico dei Travis.
Si tratta del secondo scivolone degli scozzesi, che al termine del tour prenderanno nuovamente una lunga pausa discografica, dettata anche dal trasferimento in Germania di Fran Healy e dall’uscita del disco solista di quest’ultimo.
Dopo un periodo di pausa, dove i quattro componenti del gruppo hanno più che altro ricaricato le batterie in famiglia, la band riprende l’attività live nel 2011. Le nuove canzoni prendono forma nel corso del tempo, con una novità in fase di scrittura: non è infatti il solo Healy a occuparsene, ma tutta la band. Prende forma così Where You Stand, pubblicato nell’agosto 2013 e che sancisce dopo cinque anni di silenzio il ritorno discografico dei Travis. La title track, lanciata come primo singolo tre mesi prima dell’uscita del disco, fa intuire da subito il ritorno alla piano based song, la formula a più congeniale alla band. La già citata “Where You Stand”, “Moving”, “A Different Room” costituiscono l’asse portante del lavoro, melodie midtempo impregnate di malinconia, mentre brani come “On My Wall” riportano agli inizi della band, alle chitarre di Good Feeling. “Why did we wait so long?” si chiedono gli stessi scozzesi nella traccia d’apertura “Mother”, la stessa domanda che si sono fatti probabilmente i fan.
Nel nuovo lavoro, infatti, i Travis si dimostrano semplicemente fedeli a se stessi, anche negli episodi meno riusciti, dove è sempre e comunque evidente l’impronta-Travis: insomma, si sbaglia ma in modo squisitamente personale. Non ci sono tentativi maldestri di essere “al passo con i tempi”, anche l’utilizzo di elementi elettronici è ridotto davvero all’osso e in nessun caso si ha l’impressione che ci sia alcunché di artificioso nella costruzione dei brani. A guadagnarne è la longevità del disco, che nei vari ascolti non perde il proprio smalto.
L’altro lato della medaglia è che, proprio per gli stessi motivi, Where You Stand non aggiunge molto all’onesta carriera musicale degli scozzesi che, a meno di grosse sorprese, sembrano ormai aver già sparato tutte le loro cartucce migliori.
Legati agli anni Novanta, i Travis si sono saputi costruire una carriera anche nel corso del decennio successivo, seppur cedendo il posto sopra i grandi palchi ai propri figliocci artistici. Ormai consapevoli della propria dimensione, non sono più alla caccia delle hit da piazzare in loop nelle radio, ma si trovano al contrario perfettamente a proprio agio nel ruolo di ottimi artigiani della musica pop. Ai fan e agli amanti del pop inglese questo può certamente bastare.
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