Perché a Thom Yorke (e ad altri artisti) non piace Spotify
Nigel Godrich (il primo a sinistra) e Thom Yorke (al centro) negli Atoms For Peace
Il cantante dei Radiohead ha attaccato pubblicamente il servizio in streaming, ritirando dal catalogo il suo disco solista e quello con gli Atoms In Peace. Non è l’unico artista a lamentarsi delle condizioni economiche della piattaforma. Ma questa volta la reazione dei fan è stata tiepida.
Thom Yorke è uscito da Spotify. E lo ha fatto in modo piuttosto rumoroso, attraverso una serie di tweet in cui – sull’onda di uno sfogo dello storico produttore dei Radiohead Nigel Godrich , suo collaboratore negli Atoms For Peace – accusa il servizio in streaming di essere penalizzante per i nuovi artisti . Il succo del loro discorso, rivolto al pubblico, è il seguente: “Quando scoprite nuovi artisti su Spotify non pensiate che siano loro a guadagnare qualcosa, i soldi vanno soprattutto a grosse etichette e ad azionisti”. Coerenti con le loro parole, Yorke e Godrich hanno rimosso dal servizio l’album solista di Yorke The Eraser, l’esordio AMOK degli Atoms For Peace e il disco Ultraista dell’omonima band guidata da Godrich (mentre tutti gli album dei Radiohead, sia quelli del periodo EMI che i successivi, sono ancora disponibili).
Ripasso: che cos’è Spotify. Una piattaforma Web in streaming: permette di ascoltare milioni di brani, che non vengono archiviati sul computer ma possono essere organizzati in cartelle e playlist che il sistema memorizza e mostra ogni volta che l’utente si collega a Internet. La formula di pagamento è mensile e va dalla modalità gratuita (con pubblicità) ai 9,99€ che permettono anche il download di canzoni su tablet e smartphone (per l’ascolto offline: in aereo, in vacanza, ecc.). La storia dello streaming è lunga: ci sono servizi più vecchi di iTunes (vedi Rhapsody, nato nel 2001) e le radici più antiche affondano addirittura nei preistorici anni ’90 (RealAudio). Il boom del settore è però molto recente, reso possibile dalla diffusione universale di banda larga e wi-fi e da tecnologie che garantiscono un ascolto molto fluido della musica. Oggi il mercato è vivacissimo: in Italia i principali attori sono Spotify e Deezer, ma sono operativi anche competitor come Rdio o Napster. Si stanno muovendo pure i grossi calibri della Silicon Valley, in direzioni leggermente diverse (la webradio di Apple) o con un peso ancora poco rilevante (Google). Da qui in avanti, nell’articolo si citerà prevalentemente Spotify (il servizio più famoso e diretto bersaglio della polemica di Thom Yorke), ma molti discorsi sono riferibili all’intero segmento dello streaming.
A chi non piace Spotify. Essenzialmente, ad alcuni artisti. E’ da loro che arrivano le critiche più frequenti, sempre di matrice economica. Spotify paga una quota minuscola (nell’ordine della frazione di centesimi di euro) per ogni ascolto. Questa quota viene filtrata: il servizio versa i soldi alle etichette, che a loro volta trattengono una parte e distribuiscono il resto agli artisti. Risultato: i famosi assegni da “pochi centesimi per migliaia di ascolti” di cui si legge spesso sul Web. La principale obiezione di Spotify è che i pagamenti cresceranno con l’aumento degli abbonati. Sommando quelli dei maggiori servizi, oggi si arriva a circa 15/20 milioni di utenti paganti in tutto il mondo: se aumentano loro, aumenteranno anche gli zeri sugli assegni delle royalties. Una constatazione che non basta a tranquillizzare gli artisti, di fronte ai drammatici paragoni con i guadagni unitari provenienti dagli altri formati (vinili, cd, download). Paragoni che fanno un certo effetto, soprattutto se presentati in modo infografico (come in questo esempio risalente al 2010), ma che spesso partono da presupposti un po’ troppo simili a quello che ha fallato un decennio di antipirateria: l’idea che un ascolto in streaming (o un download pirata) equivalga a un mancato acquisto di cd/mp3. Più facile ipotizzare che, non trovando una canzone su Spotify, un utente vada a cercarla su YouTube o sulle reti P2P non autorizzate (dove, per esempio, AMOK e The Eraser rimangono ampiamente disponibili).
A chi piace Spotify. Alle etichette discografiche. Soprattutto a quelle più grandi: major e indie di grosse dimensioni. Per varie ragioni. Primo: perché è un servizio legale che sta facendo una concorrenza molto efficace alla pirateria (molto più efficace di anni di marketing e avvocati). Secondo, perché le major ne sono parzialmente proprietarie (o almeno così era nel 2009, quando Universal, Warner, Sony ed Emi detenevano il 18,3% della società). Terzo, perché – seppur ancora a livello di speculazioni, vista la cappa che avvolge i singoli accordi – si può ipotizzare che le major siano in grado di strappare contratti più vantaggiosi rispetto al mondo indie ( una delle accuse mosse da Godrich ). Quarto, perché nei servizi in streaming l’etichetta discografica può contare sul potere dell’aggregazione. Un artista che ha registrato cinquanta brani e prende 0,001 euro per ascolto di ognuno di essi, deve sperare davvero in milioni di streaming per tirare su uno stipendio minimo. Per una label che ha migliaia di brani in catalogo, accatastati in oltre quarant’anni di storia, la salita è più leggera. E’ la vecchia storia di Internet: la coda è lunghissima, come scriveva Chris Anderson , possiamo scegliere tra milioni di contenuti, ma dal punto di vista economico alla fine vincono gli aggregatori, che possono contare su un margine di guadagno anche minuscolo ma su un numero enorme di contenuti.
La ribellione degli artisti. E’ ancora minoritaria e piuttosto disordinata. La maggioranza è disponibile su Spotify & C., dove i cataloghi crescono regolarmente e hanno ormai superato la soglia dei 20 milioni di canzoni. Chi non è d’accordo si muove in modo estemporaneo, preferendo spesso il singolo tweet a forme di protesta più coordinata. Gli embarghi sono piuttosto rari (anche per il timore di andare contro alle abitudini d’ascolto dei propri fan) e si possono distinguere in tre categorie. Ci sono gli artisti che tentano di applicare alla distribuzione musicale il meccanismo delle finestre delle uscite cinematografiche: quando è pronto un nuovo album, lo lanciano prima sui più redditizi canali download e su cd, liberando la distribuzione in streaming solo dopo alcuni mesi. Di recente, hanno seguito questa linea Adele, Coldplay, Black Keys. Ci sono i superbig che non sono ancora mai saliti sul treno dello streaming, come Beatles, AC/DC, Led Zeppelin e in Italia, in parte, Lucio Battisti: una categoria iper-privilegiata, sempre più esigua (da poche settimane hanno ceduto Pink Floyd e Eagles), il cui ritardo è essenzialmente dovuto alla possibilità di negoziare condizioni economiche più vantaggiose rispetto all’artista medio. Infine, ci sono gli idealisti come Thom Yorke e i medio-piccoli, che dichiarano una battaglia di principio ma – sotto molti punti di vista – rischiano di assomigliare sempre più al soldato giapponese della Seconda Guerra Mondiale, nascosto sull’isoletta del Pacifico mentre il mondo va avanti.
Sic transit gloria www. Il caso di Thom Yorke è particolarmente significativo. L’accoglienza successiva al suo gran rifiuto a Spotify è stata ben diversa rispetto a quella che ebbero i Radiohead nel 2007, quando con la distribuzione “up to you” di In Rainbows divennero i favoriti di Internet, simbolo della neoband indipendente, progressista, web-friendly e anti-establishment. Rispetto ad allora, oggi a Thom Yorke manca il supporto di almeno due categorie – il pubblico e i media – che in un modo o nell’altro hanno accolto positivamente (e contribuito ad alimentare) Spotify e la rivoluzione dello streaming. Yorke e Godrich sono inoltre scivolati sulla temuta buccia di banana del passatismo, lasciandosi andare all’ormai usurato paragone con un’altra epoca. “Se il pubblico avesse ascoltato Spotify e non acquistato dischi nel 1973, dubito che Dark Side of the Moon dei Pink Floyd sarebbe stato registrato, sarebbe stato troppo caro”, scrive Godrich . Sarà anche vero, ma quanto è utile una considerazione del genere per il giovane artista contemporaneo che deve avviare la sua carriera nel 2013 e non nel 1973? E quanto invece è frutto – come hanno subito obiettato i commentatori più critici – della classica reazione del vecchio artista che si lamenta perché il mondo che l’ha reso ricco non c’è più? Thom Yorke contro Spotify come Lars Ulrich dei Metallica contro Napster nel 2000 o Paul McGuinness (manager degli U2) contro Google nel 2008?
La restaurazione gentile. Il panorama musical-digitale è complesso e in continua mutazione. Lo è ormai da più di quindici anni e su un punto va dato atto a Thom Yorke di essere coerente: la polemica contro le major. Perché in effetti con Spotify è in corso quella che potremmo definire una “restaurazione gentile”. Lo streaming è il modo in cui la grande industria sta provando a riprendere il controllo smarrito con lo tsunami del P2P e le scorribande dei vari Napster, Kazaa, The Pirate Bay, BitTorrent, Megaupload. Un’operazione gentile, perché questa volta viene incontro alle fameliche aspettative del pubblico, con piattaforme sempre più efficienti, universali, abbondanti e a bassissimo costo (10$ al mese per 20 milioni di canzoni, quando nel 1999 con 10$ non compravi nemmeno un cd), se non addirittura gratuite (YouTube, la stessa Spotify in versione basic). Ma pur sempre una restaurazione, ben rappresentata dal meccanismo con cui Spotify, Deezer e affini gestiscono il loro catalogo: sono ammessi solo album e brani certificati da un intermediario (label discografica, distributore digitale). Niente user-generated content alla YouTube, niente file caricati direttamente dalla singola band. Un ritorno al modello broadcast dall’alto, ma in una forma che – per il prezzo, per la compatibilità con i social network e gli smartphone, per la varietà di catalogo, per l’appeal tecnologico, per i normali cicli della vita – il pubblico ha accolto di buon grado. Inutile dire che, in tutto ciò, la voce più debole rimane proprio quella dell’artista.
L’alternativa al luddismo. A cosa servono dunque prese di posizione come quelle di Thom Yorke, dei Black Keys o di altri artisti scettici nei confronti di Spotify? Di sicuro, contribuiscono ad accendere i riflettori sulle zone d’ombra che stanno accompagnando la crescita dello streaming, in particolare sulla mancanza di trasparenza nella ripartizione dei profitti. Difficile però immaginare che possano ottenere molto di più, soprattutto in assenza del supporto di un pubblico che nei confronti di Spotify e dello streaming sembra invece aver raggiunto soglie di innamoramento non lontane da quelle che dieci anni fa decretarono il trionfo dell’iPod. Più utile potrebbe essere provare a coinvolgere e sensibilizzare gli artisti stessi, spesso ancora troppo ingenui nei confronti dei cambiamenti in atto nell’arena digitale. Quanti sono al corrente che i loro album sono disponibili in streaming? Quanti controllano come vengono ripartiti i profitti? Quanti sanno come è formulato il loro contratto discografico in materia di distribuzione digitale? Più che cadere nel trabocchetto del “ritorno al passato”, forse per gli artisti sarebbe più utile cercare di muoversi compatti verso una ridefinizione contrattuale, in modo da limare il più possibile le distanze – anche all’interno del modello streaming – tra l’aggregatore ricco e il musicista povero. Una strada tutt’altro che agevole – come insegna la storia dei rapporti discografici, tribolata anche nell’età d’oro del cd – ma, probabilmente, assai più percorribile e concreta dell’aventino luddista.
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