Florence Welch è una farfalla. E’ una sposa cadavere. Florence Welch predica l’amore meglio di Gesù Cristo, la solitudine e l’istinto meglio di Freud, e lo fa danzando, facendosi piovere sul palco come una rugiada in un mattino di primavera, perfetta, ma fredda e fugace, difficile da osservare attentamente.
Florence Welch non è sicuramente un’artista lineare, non è semplicemente una chitarra e una voce, lei è una storia travagliata, sofferta, è esattamente come una frase del suo famoso pezzo “Only if for a night”, in cui cita le parole “l’unica soluzione era alzarsi e combattere”.
Florence and The Machine live allo Zenith di Parigi, ambientato in un contesto meraviglioso, quale la Cité de la Musique, dove, fra l’altro, fino a qualche settimana fa la gente era in fila per vedere il concerto sopresa di Mick Jagger e compagnia.
Un palazzetto di capienza 6.000 persone circa, completamente riempito, anche in quei gradini dove solitamente dimora l’ometto che distribuisce viveri quando è stanco di girare a vuoto per l’edificio; un’apertura delle ore 20 con un gruppo di cinque perfetti londinesi, gli Spector, ragazzetti sbarbatelli, non machi come i Muse, ma sicuramente più simpatici e più comunicativi di alcuni gruppetti indie-pop fiorenti negli ultimi anni. Ragazzi che sanno tenere il palco –buona patria non mente- e che conquistano il pubblico cantando un estratto di Shake it Out della loro genitrice Florence.
Il parterre freme, salta, spinge ed è carico; gli Spector , dopo una mezz’ora di piacevoli suoni ancora da perfezionare, salutano e augurano buon divertimento, lasciando quel vuoto di venti minuti che corrode il corpo, che aumenta il battito a centomila, quel vuoto in cui anche un tecnico che accorda una chitarra può passare come un ipotetico inizio di concerto; e allora eccoli, ecco i soliti nostalgici che tirano fuori smartphone e fotocamere per non perdere neanche la minima frazione di secondo, anche se i dettagli si scorgono sempre meglio solamente guardando coi propri occhi ciò che sta per accadere, senza uno schermo che fa da mediatore.
La scenografia prende corpo sul palco: a primo impatto sembra un volatile maestoso con una corona in testa, a tratti assomiglia all’occhio di Dio con ali glitterate, ma quello che importa è che è ad un tratto si spengono le luci e i musicisti si posizionano.
Poi, la luce cala sempre di più, e come nei vecchi club di burlesque, appare l’ombra di Florence dietro al palco, solo un’ombra danzante, mentre, come sottofondo, le prime note del pentagramma di Only if for a Night iniziano a scaturire la carica della folla.
Ed eccola, eccola che esce, nel suo vestito nero che sembra quasi una piuma di corvo decorata da scaglie bordeaux, quasi come se fossero sangue; ha i capelli legati a treccia, un’acconciatura perfetta che s’intona magnificamente con la freddezza e la rigidità dei lineamenti del suo volto.
Poi, una volta adattatasi, comincia la danza fluttuante : salta, corre da una parte all’altra del palco, si muove sinuosamente e le sue braccia sembrano fiori che cadono all’arrivare dell’autunno, muovendosi con una delicatezza spaventosa, quasi come se non fosse un corpo solido, ma una proiezione della nostra immaginazione, una semplice sagoma, aria danzante.
Prosegue con What the Water Gave Me, con Rabbit Heart, poi è la volta di Cosmic Love, e la folla impazzisce.
Le luci dello stage si alternano fra tonalità violacee e rosso intenso, e ad ogni fine di canzone eseguita la velocità della musica si attenua e rimane un faro puntato solamente su di lei e sulla sua leggiadra figura, e lei esegue un minuto di quella canzone cominciando a sussurrare, a rallentare il ritmo, ad essere l’unica stella in un cielo totalmente buio e silenzioso, fino a quando si ferma e dà il colpo di grazia con acuti da brividi, riprendendo a saltare, a giocare con le sue braccia e con i veli del suo vestito e, soprattutto, con le sfumature della sua voce.
Continua con Shake it Out, Lover to Lover, Breathe of Life fino a quando non arriva ad uno dei momenti più commoventi della serata : l’arpa suonata divinamente, quasi come una ninnananna, accenna qualche tonalità di You’ve Got The Love, fino a quando Florence non s’approccia alle prime note, cantando per minuti e minuti in acustico, senza batteria e senza faziosità, solamente l’arpa, la sua voce e una magia di contorno che riempie il sangue di pace ed armonia.
Più volte lei interagisce col pubblico, più volte elogia Parigi e prova a scherzare con incitazioni a dare un bacio a chi si trova vicino a noi, dicendo di non vergognarsi, poiché il futuro è “libera espressione”; è la volta di No Light No Light e successivamente riprende i contatti con il pubblico, dicendo che loro sono i Florence and the Machine, e che questa sera sono venuti per sacrifici umani.
Tutto surreale, tutto appena uscito da un dipinto di Magritte; Florence Welch è una fata, non si sa bene se la provenienza sia una foresta magica o un inferno divino, ma sicuramente c’è qualcosa di ignoto, qualcosa di superiore che fa sentire lo spettatore come se fosse solo, seduto sulla luna, con lei davanti e nessun altro.
Dopo il classico saluto che anticipa il bis, ritornano per intonare Spectrum, che grazie ad un buon 40% di aiuto dei coristi – potentissimi e incredibili- diventa una sorta di danza al diavolo, di rito satanico, il tutto sempre aggraziato dalla sua chioma rossa, questa volta sciolta sulle spalle e al ritmo con il suo corpo.
Florence coinvolge ancora una volta il pubblico, chiedendogli di saltare e di seguirla, riuscendoci fra l’altro benissimo.
Last but not least, Florence anticipa che avrebbero finito di lì a poco, ma i Florence and the Machine non possono andarsene senza lei, la prima ed indimenticabile, così al 1, 2, 3, l’arpa dà il LA a Dogs Days Are Over e tutti saltano, ballano, cantano a squarciagola e sono esaltati.
Florence Welch è una di quei pochi artisti la cui voce live è meglio di quella registrata, di quegli artisti che sul palco fanno miracoli, ma mai, mai in anni e anni di concerti era capitato di sentirsi così tanto in estasi, quasi come se fosse una fata ad aver fatto un incantesimo.
Dopo essersene andati, l’unica cosa che viene da pensare è che quella non era musica, ma magia.
Recensione by Maddy Cozzi ( e pure le foto qui di seguito)
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