Jackson trasforma il repertorio ellingtoniano in ‘music for airport’, dove Brian Eno non c’entra nulla. E il risultato a volte è insopportabile
Mi chiedo come faccia a rimaner simpatico uno che circa trent’anni fa disse che il rock era morto. Eppure da lì lui veniva, pur se voleva sbandierare da subito liaison con la musica più raffinata e cool. Le esperienze le aveva fatte tutte e per anni fu una delle migliori promesse della new wave anni ottanta. Poi le smanie jazz, con risultati dapprima sorprendenti (Jumpin’ Jive del 1981, con musiche di Cab Calloway fu episodio quasi capolavoro) poi via via sempre più standard.
Ultimamente lo avevamo perso di vista, meglio ancora, ce ne fregava assai poco, dal momento che per lui il mondo rock era out, e se permetti…
Ora ce lo ritroviamo davanti perché, con una coerenza che bisogna riconoscergli, sforna un omaggio ad una colonna della musica del novecento: Duke Ellington.
Il risultato è imbarazzante. Credo che Jackson abbia travisato l’arte del genio americano perché alcuni episodi del disco, che per fortuna si limitano a soli dieci brani, sono francamente indigeribili e tra l’altro i peggiori sono proprio quelli iniziali, che se uno non avesse pazienza e buon cuore, stopperebbe il lettore cd dopo i primi minuti di ascolto.
Ishfahan, e soprattutto l’immortale Caravan, sono orrende, trasformate da classici a music for airport (ma lasciamo stare Eno). Riprendiamo un po’ di fiato col brano successivo, un medley ellingtoniano, che ha almeno il buon gusto di non tradire troppo l’ispirazione del maestro e in qualche modo ci riporta ai tempi di Jumpin’ Jive.
Anche Mood Indigo ci lascia perplessi, mentre I Ain’t Got Nothin But The Blues – Do Nothin’ Til You Hear From Me nonostante l’ugola raffinata della nuova regina del r’n’b Sharon Jones, sembra presa pari pari dal repertorio degli Steely Dan (intrigante certo, ma siamo sicuri che ha qualcosa a che vedere con l’Ellington che conosciamo?).
Il disco si avvale di prestigiose collaborazioni: il chitarrista Steve Vai, la cantante iraniana Sussan Deyhim, la vocalist brasiliana Lilian Vieira, e nientecocodimenoco Iggy Pop che col suo vocione sempre più funereo accompagna Jackson nella finale It Don’t Mean A Thing (If I Aint Got That Swing).
Mi si perdoni, ma The Duke non riesco proprio a digerirlo: quando arriva una delle canzoni più belle del repertorio e una delle mie preferite, precisamente ‘Perdido’ e sento la Vieira affrontarla in chiave saudade, non posso non confrontarla con quella virtuosa ma pazzesca di Sara Vaugham, e gli ultimi dubbi cadono.(MYWORD)
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