L’arte di Gelb potrebbe essere una risposta coloro che dicono che la musica non si evolve: in realtà non c’è bisogno di evolvere o chissà cosa sperimentare per offrire all’ascoltatore un disco che incanti e soddisfi
Vai a sapere perché Howe Gelb ha raddoppiato il nome della band passando da Giant Sand a Giant Giant Sand. Qualsiasi spiegazione, a me, risulterebbe superflua, perché quel che mi interessa è la qualità della musica, e qui c’è poco da contestare.
Gelb lo ritengo una delle menti più sottili del panorama musicale e la sorpresa dell’anno scorso, Alegrias con la sua band di gitani, mi aveva confermato la sua duttilità e la sua creatività, pur mantenendo una coerenza formidabile ed inattaccabile.
Tucson, dedicato sicuramente alla sua città (Gelb s’è trascinato dietro in questa avventura anche un nutrito gruppo di musicisti ‘indigeni’) sembra non offrire nulla di nuovo, eppure dietro una spettrale, a volte, ripetitività si nasconde il tocco del maestro e la elasticità dell’artista mai fermo.
L’arte di Gelb potrebbe essere una risposta ai cretini che dicono che a volte la musica non evolve: in realtà non c’è bisogno di evolvere o chissà cosa sperimentare per offrire all’ascoltatore un disco che incanti e che soddisfi.
Personalmente adoro Tucson e mi va di dire che è ancora un centro perfetto nell’illuminata carriera di Gelb.
Come non rimanere incantati di fronte alla cavalcata country di Forever and a Day, o alla ballata alla Neil Young di Lost love o alla orbinsoniana Plane of existence, o alla calexicana Undiscovered country, o alla stranezza di Love comes over You che è cantata come se fosse un postumo di Jeff Buckley, o alla stupenda (il pezzo migliore) The sun belongs to you, o alla jazzosa Ready or not che sembra presa para para dal repertorio della compianta Peggy Lee, o al tocco da torchsong di Not the end of the world, o al divertissement tex-mex di Carinito.
Insomma, ogni brano è nello stesso tempo una delizia e una sorpresa. Se proprio dovessimo essere pignoli e sfrontati, l’unica cosa che si potrebbe obiettare di questa che qualcuno ha già definito ‘opera country’ è la lunghezza: diciannove brani non sono proprio uno scherzo. Negli anni passati, salvo rare eccezioni, solo i dischi live potevano contenere un numero così ‘importante’ di pezzi. Vorrà dire qualcosa? Che Gelb è talmente genio che ha sempre canzoni pronte da sfornare? Potrebbe essere. In ogni caso godiamoci Tucson nell’attesa di una prossima proposta che, conoscendo il musicista, potrebbe arrivare entro breve e soprattutto piena di sorprese.
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