In questi tempi tristi e bui dove gli artisti sono ormai indistinguibili da profili di cartonatura colorata, mi sento proprio di dire che questo disco, e senza tema di essere smentito, è proprio un piccolo capolavoro di finezza espressiva.
Posso essere sincero? Della St Vincent non me ne frega un tubo, nonostante dichiari che l’intesa con Byrne si è consolidata immediatamente (e te credo: io con Byrne scalerei l’Himalaya!). La trovo sulfurea ed inessenziale, poco sostanziosa di fronte alla statura colossale di un musicista che non finisce di sorprenderci (e poi quella copertina, con la mascella di lei falsamente fratturata, è davvero di cattivo gusto!).
Dunque pur se questo è un disco in coppia parlerò solo di Byrne perché credo che sia giusto così. Difficile stargli dietro, nonostante abbia i suoi annetti ormai: negli ultimi anni gli piace collaborare sempre di più con altri artisti, alcuni te li aspetteresti, tipo Veloso o Eno (di vecchia data), altri un po’ meno (Fatboy Slim, per esempio), ma quel che non viene mai meno è la sua tenacia nel portar avanti un discorso musicale che non è mai uguale a se stesso e che spesso mostra guizzi inaspettati. Come per Love this Giant.
Per carità, stupefacente l’intuizione dei fiati (e lo si capisce subito dal pezzo d’apertura, Who che è una bomba funky che fa smuovere le chiappe anche agli invalidi (scusate l’appunto), ma quello che invece mi preme sottolineare è la sbandata glassiana del sor Byrne.
I più vecchiotti – e mi ci metto – ricorderanno un disco inusuale e affascinantissimo, degli anni ’80 (Songs from liquid days), in cui il maestro Philip Glass coinvolse quasi tutta l’intellighentsia newyorkese e americana in genere, da Laurie Anderson a Paul Simon, da Linda Rondstandt a Byrne appunto, per un progetto musicale che in alcuni momenti raggiunse un grado emozionale difficilmente raggiungibile.
Ecco, in Love this Giant io c’ho risentito quei suoni, quelle tentazioni: vero che siamo su lidi diversi: Glass insisteva su un minimalismo quasi ossessivo, Byrne invece accentua ancora la sua venatura schizoide di un funky fratturato ed irregolare. Nonostante ciò la lezione di quel disco è evidente e suggestiva: basta ascoltare Dinner for Two e soprattutto I’m an ape.
Il resto del lavoro, con l’apporto ‘carino’ di St Vincent, è pura coloritura, nel senso di una musica genuinamente intelligente, mai copia di qualcos’altro, se non di un’impronta talkingheadsiana che pare logico che sia espressa.
Ti adoro Byrne, anche se fai i film con quella sòla di Paolo Sorrentino.
(Alfredo Ronci)
CONVENGO IN TOTO
BUZZ
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