PERSONALMENTE LI TROVO INTERESSANTISSIMI E A TRATTI MI RICORDANO I CLASH….
Da buoni esponenti di una generazione postmoderna, i Japandroids conoscono il gusto per la citazione e per lo stravolgimento ma non dimenticano i fondamentali del mestiere: cori da arena, una chitarra elettrica e una batteria pestate come si deve.
La “prima pagina” la fanno loro due, Brian King e David Prowse, bianco su nero come il nome del loro gruppo e quella del titolo del disco, Celebration Rock. Uguale sputata alla copertina di Post Nothing, esordio degli stessi Japandroids vecchio già di tre anni. La quale a sua volta era la copia carbone, nel formato e nei caratteri, della leggendaria stampa Elektra con cui i Television di Marquee Moon vennero allo scoperto per la prima volta nel 1977.
The Nights of Wine and Roses, invece, va a parafrasare un altro, leggendario titolo del catalogo del rock alternativo, quello dei Dream Syndicate – che tra fiori e calici preferivano trascorrerci le giornate e conservarsi il dopo tramonto per chissà cosa. Anche in questo caso, non è il primo omaggio che il duo noise rende alla propria collezione di dischi: prima era stata la volta dello Springsteen “corretto canadese” in Darkness on the Edge of Gastown, e si erano mandati a chiamare i Thin Lizzy per far sapere che i loro Boys are leaving town, 36 anni dopo esserci tornati. Questa volta tocca a For the love of Ivy dei Gun club, che citazione non è, ma una cover vera (e anche ben assestata, se è per questo) della canzone che il compianto Jeffrey lee Pierce, da leader del gruppo losangelino, aveva a dedicato al chitarrista dei Cramps, con quell’attacco fulminante che diceva “you look like an Elvis from Hell”… Allora, vi state ancora chiedendo perché il disco in questione si chiami Celebration Rock?
Da buoni esponenti di una generazione postmoderna, con il peso di troppo e glorioso passato sulle spalle, i Japandroids conoscono il gusto per la citazione e per lo stravolgimento. A differenza di molti dei loro coetanei, però, non dimenticano i fondamentali del mestiere: che stanno in una tracklist vinilica di soli otto pezzi – e bastano e avanzano, purchè si riesca a tenere alto il tiro dall’inizio alla fine; in un inno alla giovinezza impunita quale è Younger Us o nei cori “da arena”, cantati con la foga gioiosa di chi già sa che una vera arena dove suonare probabilmente non ce l’avrà mai. In definitiva, in una chitarra elettrica e una batteria pestate come si deve, la spina dorsale di tutta la storia del rock: quel che rimane “Post-Nothing” è anche ciò che c’era Prima di Tutto.
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