DISCO BELLISSIMO, IMPERDIBILE : IL GIUSTO COMPROMESSO TRA DUE GRANDI DELLA MUSICA, IL JAZZ E IL JAZZ RIVISITATO.
ECCO CHE NE PENSA IL DR FRABRETTI DI ONDAROCK
Nel 2012, a cinque anni da Rain, Joe Jackson torna in studio per suggellare l’omaggio a uno dei suoi grandi miti, Duke Ellington. Ma non c’è emulazione nelle dieci tracce di The Duke (2012). “Ho una venerazione per lui, ma questo disco non vuole essere un omaggio deferente”, precisa Joe. E per dimostrarlo sfila dall’armamentario strumentale di Ellington l’asse centrale: le trombe. Ne scaturisce un album che rilegge il repertorio del leggendario compositore jazz facendolo suonare in modo del tutto inedito. Un’operazione ambiziosa, per la quale Jackson ha mobilitato un supercast di musicisti, tra i quali la violinista Regina Carter, il bassista Christian McBride, il funambolo Steve Vai alle chitarre, Questlove e altri membri dei Roots, la cantante iraniana Sussan Deyhim, la diva r’n’b Sharon Jones e la vocalist brasiliana Lilian Vieira (Zuco 103), oltre a a sua maestà Iggy Pop, che duetta con lui in “It Don’t Mean A Thing (If You Ain’t Got That Swing)”.
Fin dai primi rintocchi di piano e dagli arpeggi elettrici dell’iniziale “Isfahan”, un bel tema strumentale di oltre cinque minuti, si intuisce che l’atmosfera è quella giusta: una vellutata serata di jazz classico e immortale, venato però da una tensione elettronica che lo avvicina a certe produzioni contemporanee, in bilico tra modern classical e world music. Perché le percussioni e i violini di “Caravan”, ad esempio, sono puro cosmopolitismo musicale, specie se affiancati ai vocalizzi mesmerici (in Farsi) della sempre magnifica Sussan. E lo standard “Perdido” si impregna di sensualità e saudade brasileira, grazie alla interpretazione solare della Vieira. Ma le radici sono sempre ben piantate nella tradizione americana, come ci ricorda un r’n’b d’antan come “I Ain’t Got Nothin’ But The Blues”, affidato all’ugola della soul-diva Sharon Jones e arricchito da un pazzesco lavoro orchestrale, che rimanda ai più maniacali Steely Dan.
Alla sua voce, sempre inconfondibile anche se non più graffiante come un tempo, Jackson consegna invece un terzetto di appassionati omaggi: la swingante “I’m Beginning To See The Light”, la struggente, pittorica “Mood Indigo” e una “I Got It Bad (And That Ain’t Good)” romantica e disperata, quindi perfetta per il suo crooning. Quasi un divertissement, invece, il duetto conclusivo con un cavernosissimo Iggy Pop in “It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing)”, trascinato dall’orchestra e dai coretti su ubriacanti cadenze swing. Completano il quadro due altri riusciti strumentali: la scalpitante “Rockin’ In Rhythm” e la sorniona “The Mooche/ Black And Tan Fantasy”, impreziosita da superbi intarsi chitarristici.
Prodotto dallo stesso Jackson, registrato e mixato da Elliot Scheiner (Steely Dan, Bob Dylan, Sting), The Duke è il miglior omaggio possibile che Ellington potesse ricevere nel 2012, ma al tempo stesso un disco che reca integralmente la firma del suo autore.
Eternamente controcorrente, refrattario a tutte le mode e i cliché, questo allampanato anti-rocker continua a saltellare senza posa da un genere all’altro, sfiorando a volte la megalomania, ma – ed è questo il miracolo – senza mai scivolare in quella superficialità che il camaleontismo spesso comporta. Anzi, forte del suo “look sharp”, è riuscito sempre a penetrare a fondo lo spirito autentico di ogni stile. Dal punk al reggae, dal rock al blues, dal pop al jazz, dallo swing all’afrocubano, dal soul alle colonne sonore fino alla Classica, non c’è praticamente ambito musicale che il suo genio onnivoro non abbia toccato e approfondito. Così come è quasi senza precedenti, in campo pop-rock, la sua poliedricità di musicista, cantante, paroliere, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra. Vengono in mente Zappa, Rundgren, Oldfield e pochissimi altri, ma nessuno di loro è riuscito a mantenersi così a lungo su questi standard di qualità.
Anche se il quarto d’ora di celebrità è finito da tempo, anche se in tanti continueranno a giudicarlo lezioso e pedante, Joe Jackson resterà sempre un rifugio prezioso per quanti non vogliono lasciarsi irretire dall’ultima next big thing e preferiscono affidarsi al respiro senza tempo della sua musica. Un’oasi dove potersi sempre rifocillare di leggerezza, classe e intelligenza. E scusate se è poco.
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