È un po’ come mettere insieme la sicurezza dei primi album di Iron and Wine e l’ultimo lavoro dei Bright Eyes di Conor Obrest, passando per Kelley Stoltz e i Walkmen
A volte stupisce come dal caos dei una metropoli come New York, possano nascere atmosfere rilassate e rarefatte, con parole sussurrate e la quiete di una domenica mattina presto, prima che l’aria si scaldi e le strade si riempiano di voci e persone. Questa è la magia che aleggia su Kiss Full of Teeth, debutto solista del musicista newyorkese Gabriel Levine – già cantante dei Takka Takka – con al suo fianco la Comunion, che, fondata nel 2006 da Ben Lovett (Munford and Sons), Kevin Jones (Cherbourg) e il produttore Ian Grimble come un collettivo di artisti afferenti alla scena Nu-Folk Internazionale (vedi ad esempio Laura Marling, Peggy Sue, Anna Calvi e Noah and Whale), si è ben presto trasformata in un’etichetta di “musicisti per musicisti”.
All’album hanno partecipato nomi eccelsi del panorama musicale – tra cui The National, Beirut, Clap Your Hands Say Yeah, Sufjan Stevens, Jonsi, fino ad arrivare a Bjork – e il risultato è un misto di suoni, pensieri ed emozioni, che si innestano su effetti di delay, loop e intermezzi di archi (When we die in South America), e in sottofondo c’è Brooklyn con i suoi rumori come un treno che stride sui binari che piano piano si tramuta in “altro” diventando puro suono, senza più connotazioni reali. Ascoltando Kiss Full Of Teeth ci si sente quasi di troppo, come testimoni di un episodio intimo e personale, qualcosa da celare agli sguardi (ascolti) indiscreti come un piccolo tesoro in musica.
La voce di Gabriel, è roca, sussurrata, fuori tempo, a volte quasi stonata, ma sempre perfetta nel clima minimale di queste undici tracce che ti catturano in una bolla di sapone capace di isolarti dal resto del mondo perdendoti in un caldo flusso di suoni.
Tutto è ordinato da un inizio (A Beginning) e da una fine (An Ending) che fungono da porta temporale per entrare nel cuore dell’album che, nonostante le sue atmosfere rarefatte, mantiene anche un tocco epico, dato soprattutto dagli inserimenti orchestrali (What Good Would that Do?), alternati a chitarre folk e fisarmoniche che in un attimo si perdono nelle note tremule di un organo a pompa o nel delay di una chitarra elettrica.
Due brani che valgono tutto il disco? Sicuramente Talk of the Town e Photo of the Town (ancora la città protagonista!). È un po’ come mettere insieme la sicurezza dei primi album di Iron and Wine e l’ultimo lavoro dei Bright Eyes di Conor Obrest, passando per Kelley Stolz e i Walkmen, raccogliendo suggestioni lungo la strada, ecco come si potrebbe descrivere la musica di Gabriel and the Hound in questo suo esordio discografico.
(Francesca Ferrari)
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