Questo album è il frutto di una selezione di canzoni che non si sono distinte per il loro successo, ma che evidentemente piacciono molto ai C.C.. L’album è stato registrato durante le “vacanze” della scorsa primavera, periodo dal quale hanno saputo cristallizzare profumi e sensazioni. Perchè questo è senz’altro un album che punta sulla spontaneità e sulle emozioni, non certo sulla tecnica virtuosistica studiata a tavolino (e comunque chi acquista questo album non la vuole nemmeno). Lo dico perchè Underwater Sunshine, prodotto per la prima volta dai C.C. stessi e quindi in completa libertà creativa, è stato registrato in gran parte dal vivo, e si sente. É un piacere notare leggere imperfezioni, suoni fuori posto e calore umano, in un periodo in cui siamo abituati a udire prodotti fortemente manipolati, in cui tutto suona perfetto ma gelido. E il genere, che potremmo definire country pop (o country rock), si presta a questo tipo di operazione. Le emozioni che evoca sono quelle di un sole ventoso, fresco e rassicurante. I brani sono stati saccheggiati dagli artisti più svariati e la scelta nasce dal semplice fatto che a loro “piaceva così”: ciò che conta è la qualità, non l’ubiquità. Lo spiega lo stesso Adam Duritz: “Ci sono milioni di grandi canzoni che vengono scritte, che ogni giorno scopri e che vorresti che i tuoi amici apprezzassero come le apprezzi tu. Queste canzoni possono essere di gruppi vecchi o nuovi, degli anni ’60 o dello scorso anno. Sono tutti grandi pezzi che speriamo adesso possano essere ascoltati da un numero più ampio di persone”. Così rendono onore a icone mondiali come Bob Dylan o Gram Parsons, eroi indie-pop come Teenage Fanclub, Travis e tanti altri (Dawes, the Romany Rye, Kasey Anderson e i loro progetti pre-crows, Sordid Humor e Tender Mercies). Il desiderio di rendere più conosciute canzoni passate inosservate ma di qualità, risponde forse al nobile desiderio di compiere un atto di giustizia musicale, che equivale a dire: “ehy gente, guardate che qui ci sono centinaia di canzoni stupende che tutti ignorano, ora ve le facciamo sentire!”. Oppure semplicemente i C.C. hanno voluto variare per una volta le regole del processo creativo, spostando la concentrazione dalla composizione all’arrangiamento. Ad ogni modo, ascoltando i quindici brani, si nota subito la spontanea essenzialità degli stessi, che trasmette una piacevole sensazione di risentito che mette a proprio agio, complice anche la sonorità estremamente calda tipica di un vecchio pub americano.
Il brano di apertura parte con un ingresso graduale degli strumenti, dapprima la chitarra con il suo giro di accordi semplice ma sempre efficace. Questi quattro accordi continuano per tutto il ritornello e il resto della canzone, diversificata di tanto in tanto solo da una maggiore enfasi di esecuzione, una maggiore apertura stereo e il coretto che da sempre caratterizza il chorus di stampo anglosassone. Anche gli assoli sono in genere piacevoli, di matrice country rock, anche se del tutto dimenticabili e a volte hanno la sola funzione di allungare inutilmente un brano che potrebbere durare tranquillamente un minuto in meno, ma gli stilemi del genere pretendono spesso tali solos. Il secondo brano, più dolce, ha un sapore folk che riesce a conferire un’aura evergreen al brano. Come tutto l’album, si presta perfettamente come colonna sonora per un lungo viaggio tra le sconfinate praterie del Nebraska anche se, alla fine, la pianura padana potrebbe andare più che bene. Il terzo brano concede qualcosa in più sul versante rock, sempre mantenendo una certa melodia. La chitarra che interviene saltellando sul canale sinistro fa sperare in un attacco rock, magari nel ritornello, cosa che non avviene mai, lasciandoci un po’ perplessi con quella chitarra alla quale sembra che il jack venga staccato di tanto in tanto. Quando sembra che forse tutto stia per esplodere in un potente finale, la canzone finisce, lasciandoci con un palmo di naso. Si prosegue con una sdolcinata ballata che si aggiunge alla lista composta da altre migliaia di ballate cadute nell’oblio nel corso degli anni. Brano evitabile, nel quale non poteva mancare l’assolo insipido, almeno così appare ad un ascoltatore che abbia l’orecchio abituato, non dico a Jimi Hendrix, ma almeno sui migliori assoli di Dodi Battaglia. Nel quinto brano possiamo sentire una certa articolazione armonica e strutturale nonchè una bella esecuzione. Un cambio di atmosfera nel sesto brano distrae piacevolmente l’ascoltatore per cinque minuti. Altro cambio segue nel brano successivo, uno dei migliori, decisamente country e piacevolissimo, con tanto di mandolino e fisarmonica. Si prosegue con un brano da classifica, anche questo molto godibile, che tradisce lo stile del suo autore originale, Travis. La successiva Oh La La non lascia il segno, è un’altra canzone-due-accordi che prosegue per quattro minuti e mezzo senza alcuna variazione. Si migliora con la decima canzone, un lento sul ruolo e il valore che le sconfitte possono avere nel lungo e accidentato percorso della vita. Si torna a ballare e sorridere con la cover accellerata del grande cowboy Gram Parson, riferimento per molti autori del country degli ultimi anni. La dodicesima traccia, senza infamia nè lode come altri brani, risulta gustosa per il sound e l’arrangiamento sempre piacevoli del gruppo californiano. Jumping Jesus è il tentativo di riprendere un pezzo dei Sordid Humor (uno dei progetti che precedono la nascita dei Counting Crowes), nel quale si lasciano andare al discreto inserimento di archi pizzicati. Chiudono l’album You Ain’t Going Nowhere di Bob Dylan e The Ballad of El Goodo dei semi sconosciuti Big Star.
Il fatto che sia un album di cover, alcune delle quali sono già state registrate e pubblicate dalla stessa band di San Francisco Bay negli anni passati, ha portato alcuni critici inglesi a ritenerla una parziale perdita di tempo. D’altra parte più di una volta la band si è dichiarata orgogliosa di fregarsene della musica nuova, e questo si sente, nel bene e nel male. Chi è alla ricerca di novità rimarrà deluso dai C.C. ma, dopotutto, loro calcano le scene da vent’anni, vendendo milioni di dischi e vincendo Grammy, per cui non devo certo spiegarvi io come suonano nè quale sia l’attitudine musicale alla base del country rock. Chi ama la musica semplice, quella che viene dal caldo cuore americano del country rivisato con attitudine pop, allora si potrà tuffare con un sorriso nelle loro dolci acque assolate, chi invece si ritrova spesso in auto a guidare per le “higways” italiane, potrà trovare in Sunshine Underwater una compagnia molto più piacevole di ciò che passa in radio per gran parte del giorno.
di Roberto Azzi
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