Per quanto le singole canzoni siano per lo più riuscite, la sensazione è quella che ogni brano sia una piccola perla slegata dalle altre, un piccolo episodio a se stante
L’Irlanda ha un fascino tutto particolare, una sorta di magia attrae inesorabilmente verso le coste brulle del Connemara, verso i rigogliosi pascoli dell’interno disseminati di pacifiche pecore che scrutano con interesse i passanti, o verso le piccola cittadine come Galway. Forse parte di questa magia è la musica che sembra pervadere tutto abbracciando strade e vallate e che ti colpisce camminando per le strade di Dublino come un’improvvisa folata di vento. È qualcosa di ancestrale, radicato nel passato, un suono di un altro tempo a cui il gaelico da un tocco di mistero. Una musica tramandata di padre in figlio, qualcosa che non si può insegnare ma che resta addosso come un profumo o un ricordo. Sin dagli anni Sessanta gli ambasciatori indiscussi di questa eredità di suoni e parole sono stati i Chieftains, a loro il merito di aver fatto conoscere la musica tradizionale irlandese in tutto il mondo arrivando a vincere sei Grammy e a collezionare un lunga e varia discografia, oltre che un’infinita serie di collaborazioni internazionali. Ora i capelli si sono imbiancati e la formazione ha subito alcune modifiche negli anni; da quel primo concerto tenutosi nell’antica St Catherine Curch di Thomson Street a Dublino (oggi ricordato da una targa del Rock’n’Stroll Trail) sono passate alcune decadi, e i Chieftains ci sono ancora a testimoniare l’amore per la loro terra e cinquant’anni di carriera. Quale modo migliore per festeggiare se non un disco di collaborazioni che stende un ponte tra passato e presente? Ossia tra folk il di ieri e le nuove leve del domani? Ecco quindi Voice of Ages, un album che ha letteralmente valicato l’oceano per abbracciare un novero di artisti tra loro provenienti da ambiti diversi, ma che sotto la guida di Paddy Maloney e T-Bone Burnett – che si è detto entusiasta del lavoro svolto con i Chieftains – hanno colto l’opportunità di lasciare la loro impronta nella storia della band irlandese.
Nel novero di giovani musicisti troviamo alcuni rappresentanti della scena indi-folk made in US, Bon Iver, The Decemberists, The Low Anthem, altri invece appartenenti al versante più country, The Civil War, Pistols Annies, Carolina Chocolate Drops, Punch Brothers, affiancati da alcuni colleghi europei, Imelda May, Lisa Hanningan, Paolo Nutini.
I brani riproposti mescolano cover (When the Ship Comes in di Bob Dylan), traditional (come le ballate tradizionali Come All Ye Fair And Tender Ladies e Down in the Willow Garden provenienti dal repertorio degli Appalachi o Peggy Gordon direttamente dalla tradizione canadese) e inediti (Lilly Love appositamente scritta dai Civil War ispirati dalla terra d’Irlanda), si alternano strumentali e struggenti ballate, insomma un album ben studiato e bilanciato. Ma abbiamo un però: si, nell’insieme il disco scivola via piacevolmente a un primo ascolto, ma la curiosità lascia ben presto spazio a un senso di mancanza. Per quanto le singole canzoni siano per lo più riuscite, gli artisti siano eccezionali e non ci sia nulla da ridire sui Chieftains, la sensazione è quella che ogni brano sia una piccola perla slegata dalle altre, un piccolo episodio a se stante, non una parte di un insieme, manca un filo conduttore, qualcosa che si guidi nell’ascolto di questo disco, che ci faccia sentire aria di festa e che dia un senso a questa milestone piantata al cinquantesimo anno di attività di una band storica, a cui non possiamo comunque non augurare altri cinquanta di questi anni!
di Francesca Ferrari
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