Robert Fripp sciolse i King Crimson un giorno del 1974, dopo avere chiuso le danze in studio con Red e quelle in scena con i concerti americani poi documentati su USA. Si sentiva vincolato dalla sua Bestia Crimsonica, e frustrato per la poca considerazione di cui godeva. Così, libero e solo, trascorse sei anni di “interregno” (parole sue) dividendosi in decine di iniziative solistiche e con altri, da Eno ai Talking Heads fino a quella League Of Gentlemen che gli piaceva chiamare “la mia new wave instrumental dance band”.
Intorno era scoppiato il mondo. La rivoluzione punk e la ricostruzione new wave, la disco, i primi germogli di elettrodomestica, la scoperta delle musiche etniche. I vecchi ammiragli Prog erano in fuga, quando proprio non avevano avuto la testa mozzata sul mellotron, ma Robert giustamente protestava autonomia ed era più che mai attivo, impegnato a trovare altre strade per vivere il suo tempo. Nacquero così i nuovi King Crimson, Mark IV secondo gli storici, con il determinato leader, il vecchio compare Bill Bruford, il turnista de luxe Tony Levin e un secondo chitarrista che più diverso da RF non avrebbe potuto essere, Adrian “Ade” Belew, scoperto da Zappa, consacrato da Bowie.
Per prudenza e onestà, Fripp testò il quartetto con sigla Discipline, in un breve tour di tre settimane partito da Bath alla fine dell’aprile 1981. L’esperienza lo convinse e una volta in studio (altre tre settimane) venne a cuor leggero recuperato il glorioso nome, anche se la musica che sprigionava da quella macchina da guerra per metà Brit e per metà USA era profondamente diversa dai Crimson d’inizio corsa. “Una irresistibile convergenza di fantasie e associazioni con fideistici salti in avanti,” scrive bene Sid Smith nelle note al trentennale dell’album, “a uno strano incrocio tra dinamiche rock, minimalismo, musica gamelan, sensibilità sperimentali, con una peculiare musicalità per creare qualcosa di esclusivamente Crimson”.
Fripp aveva sofferto per anni il fatto che i KC venissero considerati sempre e comunque un gruppo Prog (senza godere peraltro del successo che i veri gruppi Prog venuti dopo le intuizioni di In The Court avevano lucrato). Il primo LP della nuova band chiudeva fragorosamente la questione: il Prog era lontano e sepolto, ma anche le faticate contorsioni sonore di Red, di Lark’s Tongue in Aspic, per un fantastico bombardamento sensoriale da parte di quattro musicisti che parevano insieme da una vita, tesi e coesi e convinti dalla parola d’ordine del disco e del periodo (“Disciplina non è uno scopo in sé , solo un mezzo per raggiungere lo scopo”).
“C’è qualcosa di Talking Heads in questa musica, solo che sono in quattro anziché in nove”, aveva commentato uno spettatore alla fine del primo show dei Discipline, e Fripp, divertito, aveva preso nota. Giusta osservazione. Nei sette pezzi di Discipline c’è la smaniosa voglia di comunicare che faceva librare il giovane Byrne su una nuvola di crepitante elettricità e che finalmente sprigiona l’implosiva energia del troppo cerebrale Fripp. Levin con il suo Stick è un fantastico martello, Bruford il batterista ideale per rendere flessibile e non opprimente la griglia delle figurazioni ritmiche; il resto lo fanno gli incroci supersonici delle chitarre – più posata ma pesante quella di RF, alata e ultrabizzosa quella di Adrian Belew, un naturalista psichedelico che per il suo strumento insegue voci animali (qui prevale il barrito dell’elefante, presto si passerà al rinoceronte). Un diorama “heavy, light, fun and dark”, per usare le infervorate parole di Ade, che tramortisce con la sequenza di Elephant Talk, Frame By Frame, Thela Hun Ginjeet e rianima poi quel che resta dell’ascoltatore con la radiosa melodia di Matte Kudasai (“aspettami per favore” in lingua giapponese). La sintesi tra questo e quello pare The Sheltering Sky, nata come improvvisazione di gruppo e strutturata poi come liquida ballata con le percussioni di Bill Bruford (la sua anima africana) e una chitarra synth che suona come Chet Baker nel regno degli spiriti.
Nonostante la forza dirompente, Discipline si trascinò male e per poco nelle classifiche, non andando oltre il quarantesimo posto. Non molto meglio avrebbero fatto gli album successivi, Beat e Three Of A Perfect Pair, pregevoli anche se non eccezionali come questo primo. Chissà, forse i giovani ascoltatori trovavano troppo vecchio un guru di trent’anni, mentre i fedelissimi KC stavano lì a rimpiangere i tempi andati. Ma per dirla come l’orgoglioso Fripp, “da appassionato mi arrabbierei se mi fossero propinate le vecchie cose. Chi sceglie i King Crimson sa che deve sempre aspettarsi qualcosa di nuovo.”
(Nelle note a questa edizione del trentennale, Robert Fripp spende parole ammirate per Steven Wilson, il restauratore incaricato di dare nuova vita digitale all’intero catalogo KC. Grazie a lui, che ha remixato e rimasterizzato i nastri nei più diversi format, “lo spirito del mix originale è rispettato con tutti gli onori e il suono è molto, molto meglio – per chiarezza, trasparenza e definizione”. Poco da aggiungere alle parole dell’esigentissimo boss, che si è molto fidato e confessa di aver trovato il lavoro già sistemato al 90/95% dall’allievo, limitandosi a ritocchi. Per la cronaca, insieme a questo glorioso album dei King Crimson Mark IV esce anche una versione restaurata di Starless & The Bible Black, il disco 1974 della terza formazione.
La parte più interessante della celebrazione è il DVD, con remix dei sette brani in MLP Lossless Stereo, DTS 5.1. Digital Surround e PCM Stereo 2.0. In aggiunta, una alternate di Matte Kudasai, una serie di trascurabili minuzie “additional” e, più stimolanti, i rough mixes dell’album, con i brani in sequenza ben diversa e quindi un’altra percezione di Discipline.)
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