È facile inciampare nei cliché che introducono “The Lion’s Roar”: un duo di giovanissime sorelle svedesi, famose per la loro cover di “Tiger Mountain Peasant Song” dei Fleet Foxes almeno quanto per il loro disco d’esordio, “The Big Black And The Blue”, una cartella stampa che gronda di endorsement importanti (di Jack White, uno non proprio parco al riguardo, e di Patti Smith, che ha pianto, a quanto pare, dopo aver sentito la loro versione di “Dancing Barefoot”) e di collaborazioni già avviate coi miti d’infanzia, in particolare Conor Oberst, il quale presta il proprio deus ex machina, Mike Mogis, alla produzione di questo “The Lion’s Roar”.
Tutti pregiudizi, che quest’ultimo sa scrollarsi di dosso senza grandi indugi. Arriva una canzone come “Emmylou”, che mostra ed esemplifica la poetica del duo, devota a un passato mitico, quello di Gram (Parsons), di Emmylou (Harris), di Johnny (Cash) e June (Carter Cash), e con essa rivive, in una riproduzione sfocata dai ricordi d’infanzia – nei quali la madre spiegava al femminismo alle due, appena in età scolare – un periodo di grandi rivolgimenti o, perlomeno, un periodo in cui questi sembravano possibili.
Che qualcosa sia cambiato davvero o meno, anche e soprattutto nel mondo della musica (“Nessuno direbbe mai: ‘Robin Pecknold sembra proprio un elfo'” dicono, ricordando invece quanto fiocchino gli epiteti per Joanna Newsom), è difficile dire; sicuramente non sono cambiati gli ingredienti fondamentali di un buon disco. In questo senso le due allungano il passo rispetto all’esordio, così come era preventivabile, mantenendo però la freschezza di due ragazze che scartabellano tra i dischi di mamma, sognando di scrivere anche loro una canzone che muova gli animi, che scuota le coscienze.
Non è, naturalmente, negli obiettivi e nelle corde di “The Lion’s Roar” scrivere qualcosa di epocale, ma è sicuramente promettente il passo felpato col quale le due si affacciano al mondo cantautorale, statunitense in particolare, senza i proclami più o meno impliciti di altre giovani interpreti (Laura Marling). Come nel caso, in un parallelo connazionale al maschile, di The Tallest Man On Earth, è la freschezza pop del disco a ringiovanire il volto della tradizione, troppo spesso calligraficamente rappresentato in diverse altre uscite.
Le buone doti vocali di Johanna e Klara Söderberg illuminano il passo della lieve festosità di “King Of The World”, numero che ricorda gli Okkervil River più disimpegnati (o il Beirut più americano) e che ospita il contributo vocale di Oberst; gli stessi citati tornano nella marcia elegantemente scolpita su un motivo di flauto della title track. Scelte d’arrangiamento che, giustamente, sono frutto della produzione più ambiziosa e concertata di questo disco, ma che non nascondono certo la sostanza assai limpida del songwriting della coppia: lineare e pulito, onestamente “dichiarato” in ogni traccia, ma mai affondato in sterili riproposizioni.
Anzi, è pieno e brillante lo spirito giovanile, alla Leisure Society, di pezzi come “Blue”, inusuale escursione pop per un disco che solo apparentemente può sembrare dimessamente tributario di un tempo, vero o immaginario. Lo dimostra anche il maturo gusto melodico dell’ottima ballata “To A Poet”, dai toni ancora quasi cameristici, con i suoi inserti di archi e fiati.
Ciò che convince pienamente delle First Aid Kit e del loro “The Lion’s Roar” è anche la personalità che mostrano nel misurarsi con costruzioni più classicamente alla Neil Young, come il brano migliore del disco, “In The Hearts Of Men”, in cui le sorelle Söderberg manovrano il canovaccio con pieno senso lirico – stupendo il cambio in coda alla canzone, con il flauto a contemplare il tutto.
Ma tutto “The Lion’s Roar” si rivela un’opera di grande gusto: impossibile non citare il delicato, struggente trasporto di “I Found A Way”. Un album insomma che si intrufola gentilmente e, prima che si immagini, si scopre non più dispensabile, come un amico che sai leggere come un libro aperto, e viceversa.
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