Undici canzoni dolci, alcune proprio trasparenti, cantate e suonate in una spumosa lingua folk rock che rimanda agli american heros dei primi ’70
In pochi anni Ryan Adams si è giocato buona parte della reputazione, pubblicando troppo e disordinatamente, svariando forsennatamente da uno stile all’altro – voleva forse dimostrare di essere un originale eclettico, ha finito solo con lo sconcertare la sua tribù. Così questo nuovo album non so come interpretarlo, se un nuovo inizio o l’ennesima mossa per sorprendere. Sono undici canzoni dolci, alcune proprio trasparenti, cantate e suonate in una spumosa lingua folk rock che rimanda agli american heros dei primi ’70: immaginate il Neil Young di Helpless, il Graham Nash di Sleep Song, il James Taylor di Carolina On My Mind e, si parva licet naturalmente, avrete un’idea del film in programmazione.
Adams ha avuto problemi di salute negli ultimi tempi e per la prima volta in carriera ha dovuto staccare la spina per mesi; aggiungete che si è sposato e avrete probabilmente la spiegazione del perché il disco è tanto educato e soft, incrocio tra un viaggio di nozze e un viaggio nel passato, se è vero che il produttore è il venerabile Glyn Johns e l’album è stato registrato in diretta, con vecchi macchinari, 100 per cento analogico. Ryan ne va fiero. “Ci sono pochissime sovraincisioni; e nessun computer ha mai sfiorato questi pezzi.”
Tutto è stato già scritto e ascoltato nel mondo del folk rock, giusto?, quindi non aspettatevi niente di nuovo; ma una bella canzone è una bella canzone, per quanto risaputa, e allora grazie per Come Home, per Do I Wait e soprattutto Dirty Rain, là dove Ryan sogna di aver partecipato alle sedute di Blood On The Tracks e si inventa l’undicesimo brano di quel disco.
myword.it
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