Il dio del rock mi ha fatto la grazia, dando un senso a quello che scrivevo recensendo il precedente album Wire, Object 47: “Evito la ghigliottina, prendo il disco come una pausa di una nobile storia lunga ormai più di trent’anni.”
E’ andata proprio così. Questo nuovo lavoro è più alto di una spanna e riprende felicemente il discorso di Send, l’album con cui Colin Newman e compagni decisero di rimettersi in cammino dopo una lunga pausa nel 2003; così felicemente che qualcuno ha già definito quest’opera come la migliore dell’ultimo periodo, degna di competere con le prime e più storiche pagine della band.
Non faccio classifiche, dico solo che nel repertorio vedo una varietà convincente e una nobile grazia nel trattare i linguaggi scelti. E’ come un best della musica Wire lungo i decenni, come uno scintillante juke box di inflessioni Brit nel corso della storia rock: in sorprendente sequenza appaiono i Damned, i Teardrop Explodes, i Blur, i Roxy Music, il rock più sgherro e misteriosi fuochi psichedelici, canzoni androidi, sogni gotici.
L’inquietante copertina (il dettaglio di un’opera di Arte Povera di Jannis Kounellis) parrebbe suggerire un mondo sonoro claustrofobico e un rock oppressivo che segna invece solo due-tre brani. Il disco è più positivo e la stessa grafica, a dar retta a Graham Lewis, “riflette l’idea di una nuova alchimia necessaria per svelare i segreti della realtà “. Tutto il disco verte su questo, sul rapporto tra contemporaneità e passato, tra l’ostentato splendore della tecnologia e la misconosciuta potenza della Natura; e culmina in un brano affascinante che è quello che intitola l’album, di cui Colin Newman si dichiara perdutamente innamorato. “Non avevamo mai registrato una canzone così: in ¾, con chitarre acustiche, un bouzouki, un organo. Più che i Wire, sembrano i Pentangle!”
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