Next Stop Is Vietnam
AA.VV
Voto: 4 stelle
Voto utenti: 5 stelle
Casa discografica: Bear Family
Anno: 2010
Il personale disco del 2010, per dire la bizzarra conformazione della mia mente, non è un fantasmino MP3 consigliato da qualche Pitchfork del cazzo ma un tomone di 13 CD più libro pubblicato da poco, molto vinilico e molto cartaceo, che la Bear Family ha voluto dedicare alla guerra in Vietnam. Si chiama, come quel verso insolente di Country Joe, e porta il sottotitolo di The War On Record: 1961-2008, chiarendo subito che si parla sì degli anni drammatici del conflitto, i ’60 specialmente, ma anche degli strascichi, dell’eco ossessiva e prolungata nella società americana – fino a oggi.
E’ un lavoro straordinario che, per quanto imponente (sono più di 300 pezzi, fra canzoni e documenti audio), non copre tutto l’arco del possibile e tralascia interi settori musicali, come il jazz. Quello che c’è però basta a sbalordire e a mettere in moto la mente. Era davvero viva e ricca la scena della musica in quegli anni, sensibile come un termometro ai bollori e ai ghiacci della società . Noi ricordiamo le canzoni rock di protesta, e le topical songs di tanti folksinger; ma la società era divisa e ogni fazione aveva i suoi cantori, e il sì o il no alla guerra conobbero infinite declinazioni da Nashville a Detroit, dalla Kent State University ai ghetti di New York, dalla California alla cintura della Bibbia.
Se riesco a fare un discorso non cinico, da studioso e curioso, direi che le perle di questa grande antologia sono proprio le canzoni a favore della guerra, maledette e seppellite in fretta e nel ricordo sovrastate dagli inni di pace o di rifiuto che hanno fatto la storia della canzone popolare: Masters Of War, per dire un mito, Sky Pilot, The Unknown Soldier dei Doors, Kill For Peace dei Fugs, I Ain’t Marching Anymore di Phil Ochs, e ne tralascio decine. Noi vedevamo solo quello, dalla parte dei ragazzi che bruciavano le cartoline precetto e dei disertori che scappavano in Canada, ma l’America del Viet Nam era anche altro; erano le centinaia di migliaia di fans del sergente Barry Sadler e della sua Ballad Of Green Berets, per cinque settimane al numero 1 delle classifiche USA nel marzo 1966, erano i milioni di spettatori che applaudirono Victor Lundberg all’Ed Sullivan Show quando un giorno del 1967 recitò la sua Open Letter To My Teenage Son, un classico della maggioranza silenziosa, con quel minaccioso finale passato alla storia: “Se mai deciderai di bruciare la cartolina precetto, allora brucia anche il tuo certificato di nascita. Perchè da quel momento, sappilo, non sarai più mio figlio.”
Gli hippie e i pacifisti occupavano le prime pagine dei giornali e sequestravano l’attenzione dei discografici ma nel profondo della scena i conservatori resistevano e ribattevano – “it’s America”, era il loro motto, “love it or leave it”. Avevano vecchi soldati dagli occhi blu (Pat Boone) e fidanzate d’America con la gonna lunga (Connie Francis), militi pronti a cantare le glorie dell’intervento armato (il sergente Bob Lay e la sua Ballata del Marine) e difensori d’ufficio anche per crimini orrendi come il massacro di My Lai (il Battle Hymn Of Lt Calley della C Company). Alle più violente invettive contro la politica bellica rispondevano con puntigliose answer songs; Jan Berry di Jan&Dean (il compagno si dissociò) scrisse una Universal Coward per reagire alla Universal Soldier di Buffy Sainte-Marie e Barry McGuire trovò sulla strada della sua Eve Of Destruction l’ottimismo a 32 denti di The Dawn Of Correction degli Spokesmen. Perfino i bambini vennero arruolati in questa guerra d’opinione musicale; uno di loro, Craig Arthur, fu protagonista di un agghiacciante sequel della Ballata dei berretti verdi, The Son Of A Green Beret. (La mano dell’oblio a volte è misericordiosa nello scolorire il ricordo di certi crimini musicali.)
Il Vietnam toccò le corde di John Lee Hooker, di JB Lenoir, di Marvin Gaye giovane e maturo (Soldier’s Plea prima del capolavoro di What’s Goin’ On), di Johnny Cash che andò in Viet Nam a sostenere le truppe ma al ritorno non volle tacere e su quell’ “inferno in Terra” scrisse Singing In Viet Nam Talking Blues. La guerra eccitò la fantasia di John Lennon e Phil Ochs, che presero per buona l’utopia di Allen Ginsberg (“io finisco la guerra dentro di me e chiunque sia contagiato dal mio gesto”), e riunì sotto lo stesso vessillo di pace artisti lontanissimi fra loro come Beach Boys, Grand Funk, Jimmy Cliff, Flying Burrito Bros.
Grandi nomi ma anche ragazzi qualunque, come i cinque Midnight Sons che nel 1966 adattarono il tema di Summertime Blues alla protesta contro la leva obbligatoria, inventandosi un geniale Draft Time Blues. I parolieri trovarono nuove fonti d’ispirazione e variazioni a temi classici: c’è una moglie che fa la bella vita mentre il marito combatte oltreoceano in Letter To A Buddie di Joe Medwick, un ragazzo strappato alla vita di quartiere per la giungla in Goodbye High School (Hello Viet Nam) di Tommy Dee e due fratelli su fronti opposti in Ballad Of Two Brothers, di Autry Inman e Bob Luman. Così tanta la voglia di schierarsi e di partecipare al dibattito da coinvolgere nella sfida canzoni nate con spirito tutto diverso. Una esemplare è Leaving On A Jet Plane, di John Denver; quell’aereo che in origine chiudeva una qualunque storia d’amore diventa il simbolo del ritorno a casa dei ragazzi dopo un anno di inferno indocinese.
La guerra finisce nel 1975 ma le canzoni continuano a inseguire paure e delusioni, rimpianti, amarezze. E’ l’epopea dei prigionieri di guerra, dei dispersi, dei veterani che per non farsi dimenticare prendono la chitarra e cantano in prima persona ricordi e invettive (gli ultimi due CD sono fatti di questo materiale); è la triste storia di ragazze illuse da amori diventati impossibili (Hanoi Hannah di Roger McGuinn) e di poveri emigranti vietnamiti che in America trovano l’inferno e non la terra promessa (Galveston Bay di Bruce Springsteen).
Un cantautore soprattutto non distoglie lo sguardo e l’attenzione – Country Joe McDonald. All’apice della sua insolenza freak ha scritto la più velenosa protest song contro la guerra, I Feel Like I’m Fixin’ To Die Rag, usando la lingua degli imbonitori e la musica dei luna park per sfogare il suo disprezzo. A quarant’anni torna sul tema con un album intero, Vietnam Experience, trovando toni ancora più accorati e drammatici; ci sono i classici già noti della sua lingua lunga ma anche canzoni nuove come The Girl Next Door, storia vera di una delle tante infermiere di guerra segnate nella carne e nello spirito dagli orrori vietnamiti. E’ giusto che le note per il cofanetto le abbia scritte lui, che un giorno del 1969 a Woodstock per puro caso (lo spiega bene nelle note) portò ai 300.000 di quel festival e poi nella leggenda il suo Cheer e il suo Rag urticanti.
Se dobbiamo trovare un inno a questa storia, però, non è l’I Feel di Country Joe ma un’altra delle canzoni “arruolate per caso”, come prima dicevamo di Leaving On A Jet Plane. Può essere che la canzone più amata da rudi soldati nella giungla l’abbiano scritta due borghesucci del Brill Building come Cynthia Weill e Barry Mann? Può essere, e lo dicono i soldati stessi, ricordando quanto tenne loro compagnia We Gotta Get Out Of This Place, che Mann e Weill avevano scritto per gli Animals e fece poi il giro dei complessi beat (nel box è riportata la versione di Paul Revere & The Raiders). Il testo parlava di un ragazzo e una ragazza che lottavano per uscire dalla miseria di New York City e sognavano un posto migliore; ma il ritornello era troppo allettante e le parole così perfette (“dobbiamo andarcene da questo posto, fosse anche l’ultima cosa che facciamo”) che i ragazzi al fronte la piegarono alla propria realtà e ne fecero un talismano, la loro lampada di Aladino.
Così We Gotta Get Out Of This Place vibrò sulle onde radio, scosse gli accampamenti, scaldò i cuori, infuse speranza; e oggi è una sorta di inno ufficiale dei veterani, un segno di riconoscimento tra chi alla fine ce l’ha fatta sì a get out of that place. Per dirla come un anonimo reduce nelle note: “We Gotta in Vietnam fu la nostra We Shall Overcome
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‘Il personale disco del 2010, per dire la bizzarra conformazione della mia mente, non è un fantasmino MP3 consigliato da qualche Pitchfork del cazzo…’
ALL’AUTORE (NON RIPORTATO): COMPLIMENTI!!!!! BRAVO!!!!! SEI UN GENIO!!!! TU SI CHE VALI QUALCOSA, ALTRO CHE QUEGLI SFIGATI OLTREOCEANO…
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BEH IN OGNI CASO MR BERTONCELLI NON E’ PROPRIO L’ULTIMO ARRIVATO,B 16 🙂
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si certo, non e’ l’ultimo arrivato ma evidentemente neanche molto educato… che senso ha far la ‘guerra’ ad un sito di qualita’ solo perche’ non e’ nella stessa nicchia del tuo? invece che dialogo e condivisione sempre chiusura e rivalita’ seppur virtuale e a parole. l’ennesima gara a chi ce l’ha piu’ lungo…
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e su questo ti do ragione caro b16 !!!!Ci vorrebbe sempre educazione,ma oggi e’ optional ricordatelo!!!
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