Massarini reports
di Carlo Massarini
Leonard Cohen
Piazza S. Croce
Firenze
1° settembre 2010
“Amici, vi ringrazio immensamente per la vostra accoglienza. E’ un onore e un privilegio, in un mondo così pieno di caos e di terrore, poterci riunire in questa piazza in un’atmosfera così piena di pace”.
E’ un viaggio che viene da lontano, quello compiuto per partecipare ancora una volta a una vecchia, e sempre nuova,”cerimonia”. Non parlo del pellegrinaggio dei 300 chilometri di questa sera, ma dei 40 e passa anni dalla scoperta del poeta-romanziere-chansonnier di Montreal. La prima, immensa scoperta che mi ha aperto la porta sulla canzone d’autore, prima che arrivassero le Joni e i Jackson a riempire di altre emozioni un mondo cantautorale dalle altezze e profondità vertiginose. Fra tutti, Cohen è quello che meglio ha saputo scandagliare le profondità dell’animo umano, quell’eterno equilibrio fra sacro e profano, fra incontri e abbandoni, fra estasi spirituale e stordimenti carnali. Se i simbolismi contano, sul fondo della Piazza della Santa Croce – piazza totalmente esaurita, finestre illuminate di contorno incluse – nell’antica città di Florentia, sopra il grande palco, o meglio dal grande palco – sembra nascere ed erigersi l’antica Chiesa. Sotto, incorniciato dal leggiadro tendaggio che muta colore come le emozioni delle storie che vengono intonate, l’officiante è un uomo altrettanto antico. Un’anima che molto ha visto, e molto ha vissuto.
A 76 anni, quel poeta che negli anni 60 animava la vita letteraria di Montreal come fosse la Rive Gauche si è trasformato in un anziano dispensatore di fiabe come la Suzanne del fiume, o di preghiere piene di abbandono (“If It Be Your Will”), o di poetici aneddoti sessuali (il letto sfatto del “Chelsea Hotel”, chiuso quasi con un filo di onesto cinismo “a dire il vero, non è che ti pensi poi molto”). O di canti dei partigiani per le campagne francesi in guerra, o di danze fino alla fine del’amore, o di rapimenti mistici e sensuali. Narratore in musica di squarci di una vita segreta. Le parole sono la sua arma: scelte con cura raffinata, senza furbizie da rock’n’roll, rotonde, scandite con tutta la potenza del verbo. Le parole sono come la luce, “che trova un varco in tutto, ed entra per illuminare”.
Sai cosa aspettarti da quel vecchio signore, consumato in ogni ruga, in ogni gesto, nella tenera nodosità delle dita che si muovono evocatrici di fronte al volto con un filo di barba, nel suo muoversi incantato e rispettoso nei confronti dei suoi superbi musicisti – che ringrazia con tanto di cappello, e presenta a volte con un rispettoso inchino.
Sai che sarà , come ogni cerimonia precedente, un viaggio dentro la magia della parola, uno scivolare lungo la sorpresa continua – nonostante tu le sappia quasi tutte a memoria – di come ognuna di queste parole sia stata scelta, messa dietro la precedente, e spiani la via a quella successiva. Sai che sarà , laica o forse no, una comunione nella quale il segreto ancora una volta verrà svelato, per la gioia e l’appagamento dei sensi e dell’intelletto e dello spirito. Lo sai, perché i ricordi, e i dischi, e i dvd, sono lì da consultare, come in un Tempio con mercato annesso. Quello che ogni volta, però, non riesci a cogliere è il mistero. La misteriosa essenza di quella voce che sa scendere fin nelle più oscure profondità e mostrare la nostra fragilità e la nostra santità insieme. Il mistero, lo sappiamo, è la vita stessa. Il mistero di Cohen è come riesca a coglierne l’essenza, come possa essere al tempo stesso esplicito ed enigmatico, restituirci la voglia di godere come di raccoglierci, di perderci e poi ritrovarci.
Lì, sul sagrato della Chiesa antica, questa orchestra straordinaria, con la perfezione di un gigantesco impianto hi-fi in cui ogni minima nuance sonora viene inviata verso la città e le stelle, sottolinea e amplifica il suono – unico, impossibilmente profondo – della sua voce. L’orchestra, così perfetta dall’essere a un passo dal patinato, senza cascarci mai, e le coriste – inclusa la Sharon Robinson sua preziosa collaboratrice e coautrice negli ultimi album – rimane al servizio della voce e della parola, non la travalica mai. Cohen non gigioneggia o deturpa come fa Dylan, rimane concentrato, sobrio, solo un sorriso o un raro accenno di sogghigno quando tocca una parola particolare: sembra davvero un monaco zen in elegante suit nero e cravatta western che sa che la perfezione è quella formula antica: niente di più, niente di meno. E’ così che vanno cantate, e suonate, per sottolineare tutta l’estensione possibile dei racconti, paradisiaca e dionisiaca insieme.
L’uomo è lì, fragile e immenso, e vuole ricordarci, al di là del gioco mercantile e creativo insieme della chanson, che ognuno di noi procede a stento, fra fuoco e acqua, alla luce del sole e nel buio della notte, da solo o comandato da una donna, per fame o per avidità . Chiedendosi sempre, nelle nostre mortali catene, chi sia colui che sta chiamando.
Foto di Carlo Massarini
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