Siamo circondati: la campagna promozionale è grande, forte, inarrestabile e rende impossibile per chiunque non sapere che i Rolling Stones hanno ristampato, con un pugno di inediti, il loro “Exile on main streetâ€. Una volta tanto, però, non c’è da lamentarsi. Riscoprire quel disco è un piacere, se non addirittura una necessità . La mancanza di “singoli†di successo, a parte Tumbling Dice, ha fatto si che negli anni Exile fosse il meno suonato dei dischi degli Stones, la dominanza del blues lo ha reso meno appetibile al pubblico dei rockers amanti dei riff, la sua natura di disco in cui è più la musica delle canzoni a costruirne l’anima, lo ha fatto diventare più ostico al consumo. E invece è, come oggi tutti scrivono e dicono, uno dei più bei dischi che gli Stones hanno realizzato nella loro avventura. Leggiamo cosa ne dice Castaldo
ccolo, di nuovo, rimesso a lucido come uno scrigno di vecchi preziosissimi gioielli scuriti dal tempo, quello che è stato definito il Santo Graal del rock’ n’ roll, il meno commerciale ma più puro dei dischi dei Rolling Stones. Da lunedì 18 sarà nei negozi, in varie versioni più o meno deluxe, Exile on Main Street, che era già un doppio vinile con 18 pezzi, rimasterizzato, ripulito, e completato da ben dieci inediti (uno dei quali, Pass the wine porta tra parentesi il nome di Sophia Loren) ritrovati nelle casse segrete della discografia. Contemporaneamente esce un libro di Bill Janovitz (ed. Saggiatore) e tra pochi giorni arriverà Stones in exile un documentario che racconta l’ intera storia. Era il 1971, il momento dell’ esilio, da qui il titolo, quando gli Stones fuggirono dalla pressione fiscale imposta dalle tasse inglesi,e Keith Richards affittò una villa sulla Costa Azzurra dove nello scantinato organizzò uno studio d’ incisione nel quale riunì i suoi compagni per quella che sarebbe stata una pietra miliare del rock. L’ effetto fu prodigioso. Ormai messe da parte le inappropriate tentazioni psichedeliche, gli esperimenti colorati e gli strumenti esotici, gli Stones si dedicarono a quello che fin dall’ inizio avevano sempre saputo fare meglio di chiunque altro, ovvero la più travolgente e autorevole traduzione bianca del rock blues elettrico mai tentata prima. Perfino Tom Waits, così alieno e imprevedibile, disse che il suo pezzo preferito degli Stones era proprio qui dentro, nello scrigno avvelenato di Exile, ed era I just want to see his face, slabbrata e sperimentale, quasi anarchica. Il disco travolge con toni da scantinato, con assalti furiosi, blues densi e paludosi come il delta del Mississippi da cui tutta questa storia è nata. Un disco non a caso meno amato da Jagger, al quale forse non piace specchiarsi nella brutale sincerità di questi pezzi, e infatti la sua voce sembra più libera, meno narcisistica. Alcuni pezzi sembrano cantati intorno al fuoco di un accampamento, altrove si stuzzica il lessico del country, ci si accende di passioni gospel, si celebra la massima, incontaminata purezza del rock’ n’ roll. E il disco regge anche così, privo di quei grandi successi che hanno fatto la storia del gruppo, eccetto forse Tumblin’ dice e Shine a light, che brillano potenti ed evocative. La vera firma del disco, inutile dirlo, è quella di Keith Richards, mai così a suo agio come in questi solchi avvelenati e malevoli, anche quando in Happy ruba addirittura la scena a Jagger guadagnando il ruolo di voce principale. Lester Bangs scrisse che nel disco si parla soprattutto di sopravvissuti, sopravvissuti di lusso, certo, ricchi, padroni del mondo, ma già capaci di raccontare il rovescio dannato della felicità .â€.
Gino ha ragione, il disco va riascoltato e riscoperto, ha una straordinaria attualità , per quanto sia “vecchio†e una forza che molti dischi di oggi davvero non hanno.
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