Amchitka
Joni Mitchell, James Taylor, Phil Ochs
Voto:
Casa discografica: Greenpeace
Anno: 2009
Quando un giorno qualcuno compilerà il magico atlante della musica rock che ho in testa e nel cuore da anni, un piccolo segno dovrà pure essere apposto in alto in alto, intorno al 51° parallelo, dove si stende il ghiacciato rosario delle isole Aleutine, tra Alaska e Camchatka. No, nessuno si è mai azzardato a suonare in quelle terre dimenticate da Dio e ricordate dagli uomini solo per turpi motivi di guerra; il rimando è indiretto, perchè la difesa di una di quelle isole, Amchitka, una delle più occidentali, fornì lo spunto nel 1970 per un benefit folk rock e per lo sviluppo di un’associazione ambientalista allora sconosciuta e oggi importantissima, GreenPeace. E’ una storia rimasta nell’ombra per quasi 40 anni che ora un vecchio nastro finito su disco ha svelato, con tutti i suoi intrecci favolosi.
All’origine della storia c’è un avvocato di Vancouver, Irwing Stowe, un quaqquero dalle forti idee libertarie che nel 1969 fonda con amici un’associazione pacifista ed ecologica, il “Don’t Make A Wave Committee”, che presto diventerà “Greenpeace”. Uno dei primi obiettivi riguarda appunto Amchitka, che da tempo gli Stati Uniti hanno scelto come sito di test atomici, facendo deflagrare due potentissimi ordigni nel 1965 e 1969. Un terzo test è previsto per il 1971 e per impedirlo Stowe mobilita le sue poche forze, gettando letteralmente il cuore oltre l’ostacolo. Non ha appoggi pubblici, non ha finanziatori alle spalle ma sogna una goletta che possa salpare per le Aleutine a contrastare quello scempio contro il delicato ecosistema della regione, levando alta la voce di chi non è d’accordo. Prova a raccogliere fondi vendendo una spilla con il neonato marchio di Greenpeace ma racimola poche centinaia di dollari. A quel punto ha un’illuminazione. Forse un concerto può tornare utile, forse nella stagione d’oro dei festival rock l’idea giusta è quella di un benefit musicale per chiamare a raccolta e sensibilizzare la “Nazione di Woodstock”.
Stowe prenota lo spazio concerti più grande di Vancouver, il Pacific Coliseum, e scrive a Joan Baez, il nome quasi inevitabile che gli è venuto in mente. Riceve un rifiuto, Joanie è già impegnata. Ma non tutto è perduto, anzi. La folksinger allega un assegno di 1000 dollari e segnala il nome di Joni Mitchell, un’amica che non si esibisce spesso ma per una nobile causa potrebbe fare un’eccezione. Va proprio così: Joni non solo accetta ma paga di tasca sua il noleggio del pianoforte a coda e a pochi giorni dallo show chiama per avvisare che porterà un amico – James Taylor, che non è solo il suo fidanzato di quei mesi ma il cantautore più gettonato del momento, ai piani alti delle classifiche con un LP che farà epoca, Sweet Baby James. Sarebbe già un bellissimo concerto così, ma c’è di più: i Chilliwack, una band del luogo che non vuole mancare, e Phil Ochs, altro nobile paladino delle cause antimilitariste.
Proprio lui apre il concerto, la sera del 16 ottobre 1970, dopo una breve filippica dell’avvocato Stowe, impacciato MC. La voce è ferma e la mano sicura, mentre fa risuonare i suoi “chords of fame”, i suoi “rhythms of revolution”, legando quella serata a tante altre degli anni 60. E’ un regalo grande che Ochs fa a GreenPeace e all’inconsapevole pubblico, lui che ormai è alla deriva di paure e insicurezze, divorato da alcol e psicofarmaci. E’ stanco, disilluso, si considera un attivista “in pensione” se non proprio “morto”, come con macabra ironia ha voluto rimarcare sulla copertina del penultimo LP. Pochi mesi prima ha tenuto alla Carnegie Hall un allucinante concerto, esibendosi con un vestito di lamè tagliato su misura dal sarto di Elvis. Ha eseguito qualcosa di suo ma soprattutto un “Buddy Holly medley” e un “Presley medley”, nella patetica folle convinzione che solo il rock and roll sia musica rivoluzionaria capace di smuovere le masse.
La sera di Vancouver per fortuna, la sera di Amchitka, si presenta diversamente. Indossa sì un giubbone di cuoio che fa tanto Gene Vincent ma è tornato a essere il vero Phil Ochs, il cantastorie scontroso e scontento, l’inguaribile polemista contro tutto e contro tutti. Ha proposto il suo manifesto, I Aint’ Marching Anymore, messo in canzone Edgar Allen Poe (The Bells), riesumato Woody Guthrie e Joe Hill. Si è lodevolmente sforzato, anche se non basterà . Sarà una delle sue ultime serate di musica, e non a caso la canzone con cui si congeda si intitola No More Songs.
Dopo Ochs salgono sul palco i Chilliwack, che commettono l’errore della vita: non vogliono farsi registrare e così perdono il tram per la storia rock – neanche un posto in piedi. Il nastro salta dunque a James Taylor, che è tutta un’altra musica: un rilassato fratellino take it easy, vanitoso la sua parte, dopo quel duro e puro con lingua d’acciaio. Sweet baby James è gradevole e ha le canzoni giuste, ma in balia dei suoi arabeschi anche venti minuti sembrano una eternità . Per la storia, comunque, suonano versioni di Something In The Way She Moves, Fire And Rain, Carolina On My Mind, con il pregio della quasi verginità – per i 40 anni successivi il tenero James non farà che ripeterle, via via più stanco e sempre meno cherubino.
Ma è Joni Mitchell la star della serata, nella stagione più fulgida della sua giovane carriera. I lunghi capelli biondi sulle spalle, un vestitone di lana grezza che cade ben sotto il ginocchio, Joni fa professione di modestia nei giorni in cui più dolcemente cantano per lei le sirene del successo. Il terzo album uscito in primavera, Ladies of The Canyon, ha venduto mezzo milione di copie e non a caso il disegno della copertina adorna il poster della serata. Il Melody Maker la incoronerà a breve “interprete femminile dell’anno”, i discografici hanno pronto un disco d’oro. Lei vola alta con il suo tenero sorriso e il portamento aristocratico, vestendo le canzoni con il luccicante poco di strumenti acustici e voce di cristallo. Inizia con una Big Yellow Taxi spruzzata di classic rock (Bony Maroney), per viaggiare poi sicura tra presente e passato, Canada e California, l’album nuovo e pagine precedenti che a molti erano sfuggite. Non può esimersi da Woodstock, portata in cielo su nuvole di melodramma, ma riescono meglio Cactus Tree e A Case Of You, un pezzo che Joni ha appena scritto, un germoglio che diventerà pianta altissima, da Blue in avanti.
A un certo appunto intona Carey, un altro inedito, e si serve del tema come base per una sorprendente cover di Mr. Tambourine Man. Una delizia. Sul palco è risalito James Taylor, che la aiuta nella dolce provocazione. Sarà nei paraggi anche per il finale, quando risuona la filastrocca di The Circle Game e con l’avvocato Stowe, l’altro attivista Terry David e i due manager Elliot Roberts e Peter Asher andrà a formare il coro di accompagnamento. Il nastro finisce lì, con un brusco fade out che ci fa capire come le macchine non fossero state accese per un live ufficiale. E’ giusto un documento, un orgoglioso souvenir che per 39 anni rimane in un cassetto di casa Stowe, fino a quando John Timmins, fratello dei notori Cowboy Junkies, non ha l’idea di farne un disco: un doppio CD con elegante confezione in carta riciclata, venduto nel Green Market di GreenPeace e in selezionati negozi.
Arrivarono in migliaia quella sera al Pacific Coliseum, e impilando tre dollari per ognuno, pagate le spese, Greenpeace raccolse 18.000 dollari per realizzare i suoi piani. Il capitano John McCormack offrì la sua goletta e fu approntato un equipaggio di volontari, a cui si aggiunse il fortunato (fortunato?) vincitore di una lotteria tra gli spettatori dello show. Partirono tra ansie ed entusiasmi, temendo le reazioni della marina statunitense ma più di tutto le conseguenze della bomba: un terremoto o uno tsunami non avrebbero stupito, in un’area geologicamente tanto delicata. La goletta non arrivò mai a destinazione, intercettata dalla guardia costiera due settimane dopo la partenza da Vancouver; e non fece in tempo a sostituirla un’altra imbarcazione approntata in fretta e furia, mentre l’opinione pubblica faceva sentire il suo appoggio e per la prima volta riusciva facile trovare finanziamenti. Ai primi di novembre Amchitka fu devastata dall’esplosione di “Cannikin”, una bomba cinque volte più potente dell’ultimo test.
A Greenpeace la presero come una sconfitta, ma non fu proprio così. Anche per le reazioni suscitate, la commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti annullò gli ultimi due test in programma e Amchitka potè tornare ai suoi arcani silenzi e all’oblio di sempre – ed entrare nell’atlante rock che dicevamo, grazie a quella magica serata di musica e nobili intenzioni che i libri di storia hanno trascurato ma d’ora in avanti non sarà più possibile dimenticare.
Riccardo Bertoncelli
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