..And Then We Saw Land
Tunng
Casa discografica: PIAS
Anno: 2010
In un assurdo capannone dell’Osmannoro, la zona industriale di Firenze, tre anni fa scoprii i Tunng. Furono una rivelazione. Combattevano come atleti Tai-Chi in un folle middle of nowhere, con grazia e pazienza, tessendo trame di musica acustica e moderna folk song che quel giorno valevano anche come esorcismo contro le cattive vibrazioni di un luogo disumano. Recuperai il loro album di quella stagione, Good Arrows, trovandolo tenero e bello; scoprii che era il terzo e che la band esisteva già dal 2003, in una precaria forma mutevole.
In questo nuovo CD ritrovo tutto: l’approccio delicato, l’incantevole grazia, il gusto per la semplicità e anche la mutevolezza, se è vero che se n’è andato il fondatore Sam Genders e il socio originario, Mike Lindsay, ha dovuto rivedere un po’ l’organigramma e modificare qualcosa dello stile. Se mi credete, però, sono dettagli. Anche se il venticello electro soffia un po’ più forte, anche se si ascolta una batteria vera e non le solite domestiche percussioni, le canzoni Tunng mantengono il candore e lo spirito di prima: sono filastrocche, origami, acquarelli, per disarmare con la semplicità di piccoli gesti e modi delicati il veleno e l’affanno della nostra epoca. Un talismano per tempi difficili, spesso la musica serve a questo; e il fatto che a conoscerlo e a stringerlo sia solo una piccola carboneria forse è un valore aggiunto – che “gli altri” si tengano i loro vuoti idoli.
Il titolo dell’album sembra alludere alla lunga gestazione, due anni senza definire nulla di preciso e poi un tour africano (!) con i Tinariwen che ha schiuso la mente e stimolato l’ispirazione. Dal varco finalmente aperto sono filtrate buone canzoni, anche ottime (It Breaks, Don’t Look Down Or Back, Weekend Away), con un gusto piacevolmente Chumbawamba – dico gli ultimi, quelli della svolta acustica.
Riccardo Bertoncelli
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