Bauhaus
Voto: Â 5 stelle
Casa discografica: 4AD
Anno: 2009
“Nell’estasi di una crocefissione/ Le stimmate continuano a sanguinare/ Sangue in testa, nelle mani, nei piedi, e qualcuno geme per me.”
Siete nel 1980, un giorno d’autunno. Qualcuno vi ha consigliato uno strano conturbante disco nero e grigio in cui si vede (s’intravede anzi, sfocato) un uomo nudo che agita un megafono. La sigla è altrettanto insolita e fascinosa: Bauhaus. Lo aprite, e da un altro nero profondo balzano alla vista quattro ectoplasmi – il primo, che scoprirete poi essere il leader, pare uno scheletro. I testi sputano parole infervorate e torbide, l’immagine di una piccola scimmia li sigilla prima delle nuda scritta finale: “Bauhaus are: Kevin Haskins, David Jay, Peter Murphy, Daniel Ash”. Smarrimento. Emozione. Con quelle immagini e parole, la musica suona già nella mente senza che la puntina del giradischi sia ancora scesa.
In The Flat Field, di quest’album parliamo, fu una delle grandi suggestioni new wave, un tenebroso incantesimo giusto all’inizio degli ’80. “Il punk aveva bruciato la città della musica e dopo il ritiro dei barbari ferveva la ricostruzione. Sorsero nuovi quartieri uno diverso dagli altri, new wave fu il modo generico di denominare un piano urbanistico all’insegna della libertà e dell’estro. I Bauhaus si insediarono in periferia, costruendo bassi edifici dall’aria sinistra, usando pietre di riporto, mantenendo spesso le macerie là dove la furia distruttiva del punk le aveva fatte rotolare. Era una zona cupa e conturbante dove si avventuravano in pochi – Siouxsie quando l’umore volgeva al brutto, Ian Curtis e i Joy Division, a un certo punto i Cure. Erano sempre guardati tutti con sospetto. Il rock da quelle parti confinava con gli inferi. Rabbrividiva. Cigolava.”
Peter Murphy faceva il tipografo a Northampton ingoiando il suo amore per la musica, Bowie e Bolan soprattutto, e la provincia lo avrebbe annientato se non fosse stato per Daniel Ash. Lui, giovane inquieto chitarrista, aveva più energia e ambizioni, faceva e disfaceva bands, sognava forte. A un certo punto trovò i partner ideali nei fratelli Haskins, David e Kevin, e chiuse il cerchio chiedendo a Murphy, suo ex compagno di scuola, di entrare in società . Chissà cosa aveva intuito: Murphy non aveva mai cantato prima e mai nemmeno pensato di scrivere una canzone, eppure l’amico lo vedeva perfetto per quell’avventura – il look forse, quell’aura strana e affascinante.
Era la fine del 1978, l’intuizione si rivelò giusta. L’anonimo tipografo si trasformò in piccola rock star, scoprendo una voce affilata e buon talento compositivo, e soprattutto inventandosi un fascinoso alter ego, pallido principe dell’oltremondo con zigomi alti, labbra accese su pelle bianchissima, occhi laser pesantemente bistrati. Scelsero una sigla altrettanto magnetica anche se non c’entrava niente, Bauhaus 1919, poi solo Bauhaus. “E’ vero,” confessò Murphy in una delle prime interviste, “non cerchiamo la modernità e l’essenzialità come teorizzava Walter Gropius con quel movimento artistico; anzi, nel nostro gruppo spicca un elemento gotico che è in conflitto con la Bauhaus originale. Ma va bene lo stesso, è un collegamento che lascia il tempo che trova.”
Nel giro di poche settimane i quattro partorirono una canzone, esplicita fin dal titolo: Bela Lugosi’s Dead. La pubblicarono in estate con un altro piccolo manifesto del loro goth rock, Dark Entries, e passarono un anno a saggiare l’attenzione del pubblico con poche canzoni mirate, fino a una cover di Telegram Sam dei T Rex. Quando venne il momento di un album, accantonarono tutte le prime prove e scelsero nove pezzi originali, un po’ per lealtà nei confronti dei fan che già conoscevano quelle canzoni ma anche perchè volevano un LP compatto, non compilatorio, capace di stabilire un clima ed evocare un mondo.
In The Flat Field è in effetti quello: un disturbante luogo della mente dove il rock si sfibra e si frantuma, e arcane forze sotterranee lo mandano in circolo, non più schiettamente addosso a chi si avvicina. Odori grevi e umori densi, canzoni che parlano di tremori malati, orifizi scarlatti, un dio nell’alcova e nervi di nylon o acciaio, con la voce stranita di Murphy, i ritmi infartati e la chitarra di Ash che è stiletto, rasoio, bisturi. Nella penombra si agitano nobili spettri, non solo gli amati eroi del glam: il più selvatico Iggy, per esempio, e soprattutto i Velvet Underground, la pericolosa idea del giovane Lou Reed secondo cui voluttà e tormento sono due facce della stessa medaglia, e producono un gran bel suono.
Pubblicato dalla 4AD agli inizi della sua leggenda, In The Flat Field interessò pochi eletti e non andò in classifica. Meglio avrebbero fatto il successivo Mask e soprattutto The Sky’s Gone Out, 1982, addirittura quarto nelle classifiche Brit. Ma erano già Bauhaus diversi quelli, meno sorprendenti, troppo dentro al gioco. In The Flat Field resta il loro segno più incisivo, nonostante le imperfezioni e ingenuità e rudezze, anzi, giusto per quelle.
Pubblicato su CD senza particolare cura agli inizi degli anni 90, In The Flat Field conosce oggi la sua migliore edizione in forma di doppio disco, a quasi trent’anni da quando venne registrato. Il CD 1 contiene le 9 canzoni dell’originale opportunamente remixate mentre il 2 è un classico bonus, con qualche out take trovata negli archivi, i 45 giri d’epoca (Dark Entries, Telegram Sam, Terror Couple Kill Colonel ma non Bela Lugosi’s Dead) e in tre casi un remix dei nastri originali. Materia per feticisti e curiosi, naturalmente, il succo (denso, scuro) sta nel primo disco.
Riccardo Bertoncelli
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