DA IL GIORNALE DELLA MUSICA
Musicalmente la Norvegia è un posto strano. La scena indie esplose una decina d’anni fa con Kings Of Convenience e Sondre Lerche, seguiti da una nutrita schiera di emuli, che facevano da adeguato contraltare ai numerosi adepti del rock duro, idealmente capeggiati dai Motorpsycho. E se in ambito dance hanno sfondato i Röyksopp e sta facendo bene un emergente come Lindstrøm, i Jaga Jazzist rimangono un caso a parte: una deliziosa anomalia che riesce a fare da ideale trait d’union fra passato e futuro. Nato a metà anni Novanta per iniziativa dell’allora giovanissimo Lars Hornveth, il gruppo ha seguito un’evoluzione costante che l’ha portato da un primo album ( A Livingroom Hush , 2001) che mischiava in modo abbastanza elementare jazz ed elettronica alle ultime prove, in cui le influenze sono ancora più eclettiche e toccano il progressive, l’afro funk e la classica contemporanea. Dal precedente What We Must sono passati ben cinque anni, che sembra siano serviti per mettere a fuoco meglio musiche in passato forse un po’ troppo sbilanciate su tastiere stile King Crimson, e che oggi risplendono invece di una luce vulcanica e potente. Chiamatelo se volete jazz rock, ma sappiate che i suoi caratteri distintivi sono molto più sfumati; come poteva esserlo la musica di Frank Zappa, quello di album quali Studio Tan o Waka Jawaka , evocato in One-Armed Bandit in più di un episodio, dalla title track a “Prognissekongen”. Laddove il suono si fa più standard, ad esempio in “Book of Glass”, si pensa invece a un’evoluzione più funzionale del post rock dei Tortoise (e guarda caso al mixer c’è John McEntire), ed è ancora un pezzo come “One-Armed Bandit”, con le sue poliritmie melodiche, a fornirne l’esempio migliore. Poi c’è la componente funk, che richiama tanto le concessioni che facevano al genere i Weather Report, in un album come Mr Gone (“220 V/Spectral”), quanto le diramazioni del breakbeat jazzato degli anni Novanta in personaggi come Squarepusher o in etichette come, appunto, la Ninja Tune (il groove sotterraneo di “Music! Dance! Drama!”). Per finire, due capolavori: uno è il classicheggiante “Toccata”, con loop alla Steve Reich e fiati tipo Wyatt in contrappunto, l’altro è l’originalissimo “Touch of Evil”, con battuta in cassa dritta, stacchi di chitarra metal e organi possenti. Se l’album non suona innovativo al 100%, è difficile trovare tuttavia oggigiorno una migliore sintesi di quanto è accaduto in musica nel corso degli ultimi 15 anni. E anche di più.
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