La serie “American”, la resurrezione di Johnny Cash patrocinata da Rick Rubin, cominciò nel 1994 con un umile abbagliante album. Le registrazioni continuarono negli anni e si infittirono dopo l’uscita del volume IV, 2002, mentre la salute del protagonista deteriorava. Cash aveva ben presente che la morte lo stava ghermendo e anziché arrendersi moltiplicava gli sforzi per lasciare quanti più documenti della sua arte. Rubin racconta che c’erano sempre un tecnico e un chitarrista a disposizione, tutte le volte che Johnny si fosse sentito pronto per registrare. Andò così fino al maggio 2003, fino allo stremo delle forze. A settembre, Cash se ne andò.
Queste sono le estreme registrazioni, i nastri di quella dolorosa primavera, e guai a pensare a pagine tirate via, a bozze imprecise, a fillers per le lacrime degli appassionati. Cash rimane se stesso, pur con tutta la fatica e gli strazi del caso, con quella voce assediata dal dolore, graffiata, smangiata eppure meravigliosamente incisiva. Suona con Mike Campbell, Benmont Tench e altri ospiti, in piccoli ensembles sempre molto misurati, ed è emozionante il contrasto tra lo scintillìo degli strumenti e la tenebra del suo canto.
Una volta di più ha aperto il quaderno della moderna musica americana e ha scelto, da lontane pagine a più recenti: Redemption Day di Sheryl Crow, For The Good Times dell’amico Kris Kristoffersson, Can’t Help But Wonder di Tom Paxton, anche Satisfied Mind, il vecchio inno che fu di Joan Baez e dei Byrds e avrebbe bisogno di ben altra elasticità vocale ma va bene lo stesso, è una canzone da brividi e l’esecuzione strappa il cuore. Si concede il vezzo di una canzone popolare hawaiiana (un cowboy nel profondo dell’Oceano!), si ispira a una lettera ai Corinzi per uno dei suoi ultimi testi. Il sigillo testamentario lo appone nel primo brano, Ain’t No Grave: “Well, there ain’t no grave/ Can hold my body down”.
E’ proprio vero.
Riccardo Bertoncelli
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