MI PIACEREBBE QUESTO DISCO,CHI CE L’HA SI FACCIA AVANTI:-)
Live At Folklore Center
Tim Buckley
Casa discografica: Tompkins Square
Anno: 2009
Tim Buckley
“Su MacDougal Street vidi un minuscolo buchetto/ ci entrai per ripararmi dal freddo/ e dopo che fui dentro/ scoprii che il posto si chiamava The Folklore Center/ e il proprietario era Izzy Young/ Hanno veri dischi e veri libri/ tutti possono entrare e dare un’occhiata/ non devi avere una Cadillac/ o una chitarra da 952 dollari…”
Nelle sue cronache nuovayorkesi dei primi anni ’60, il giovane Bob Dylan immortalò in un talking blues anche Israel Goodman Young, meglio noto come Izzy, grande appassionato della scena folk e protagonista degli anni d’oro del Greenwich Village. Young era approdato da quelle parti nel 1957, quando “folk music” era ancora una parola carbonara e sospetta, aprendo un negozio di spartiti, dischi e stampa specializzata chiamata appunto Folklore Center. Il negozio diventò un punto di riferimento per appassionati e musicisti, anche perchè Young lo offrì alla musica live con avventurosi concerti inventati in pochi metri quadri, con una sedia invece di una pedana e un pubblico massimo possibile di 35 persone.
Se non riuscite a immaginare quell’Eden folk in forma di sgabuzzino, può aiutarvi una bellissima foto di David Gahr scattata un giorno del 1967, il 6 marzo per la precisione, quando nell’ambito di un “Folklore Center Folk Festival” (niente meno) Tim Buckley si esibì tra quelle mura. Con uno struggente viraggio color nostalgia, quella foto fa da copertina a un live appena emerso dagli archivi, pubblicato in CD dalla Tompkins Square. Si vede il giovane Tim nello splendore dei suoi 19 anni, i tratti gentili, i riccioli ordinati, un sorriso d’incanto, mentre soffia le sue fantasie su un pubblico di educati intellettuali e studenti un attimo “prima della rivoluzione”. Per fortuna quei soffi non se li è portati via il vento ma sono rimasti impressi su un Nagra che Izzy Young quella sera chiese in prestito ai “Friends Of Old Time Music” perchè gli venne l’uzzolo di registrare l’evento. Sia gloria a lui, anche se ci ha fatto attendere 42 anni. La musica è interessante, la qualità sonora notevole; e il periodo dell’esibizione, fra il primo e il secondo album di Tim, rende il nastro una gemma rara per i Buckleyani.
Aggiustiamo le viti della storia. Quel 6 marzo 1967 Tim Buckley è ancora confuso nel mucchio dei tanti squattrinati folksinger che cercano fortuna. Ha inciso un album per la Elektra, è vero, ma pochi se ne sono accorti e le vendite sono state mediocri. Pendola tra la California e New York alla ricerca di attenzioni, occasioni, ingaggi, trovando poco o niente. Da qualche tempo è a New York con la fidanzata Jane, in un alberghetto tra University Place e la 10ma Strada frequentato da altri musicisti illusi come lui. La voglia è tanta, l’umore ondivago. Suona di spalla agli Youngbloods al Cafe Au Go Go e si accontenta di 10 dollari a sera. Il morale è depresso. “Soldi zero,” scrive all’amico e paroliere Larry Beckett. “Si fa la fame e dopo averne fatta un bel po’ si lavoricchia. Non ha senso. Mi distrugge l’anima. Nessuno che sappia vedere la mia bellezza, nessuno che sappia amare i miei pensieri… Barzellette crudeli mi avvelenano gli occhi.” Va meglio al Dome, un locale dell’East Village dove i Velvet Underground sono di casa. L’amico Jackson Browne gli procura un ingaggio per suonare di spalla alla sua fidanzata dell’epoca, Nico, e Tim prende al volo quell’occasione che vale 200 dollari la settimana. Si spaventa, reagisce, si fortifica. “Se cantavo a voce alta la gente parlava a voce alta. Se cantavo a voce bassa, neppure riuscivo a sentirmi. Ma dopo le prime volte mi sono abituato a cantare in mezzo a tutta quella confusione.”
Eppure, in un contesto così difficile, Buckley non smette di sognare e comporre. Ha un appuntamento con la Elektra per la primavera, per un progetto di singolo “radiofonico” (non uscirà mai) e un secondo LP che sarà Goodbye & Hello’, non proprio la svolta ma almeno un passo avanti. Per quello è concentrato, scrive a scarta, prova e rifinisce, ha bisogno di serate come quella del Folklore Center anche se la paga è magra e il pubblico limitato. Propone i pezzi-chiave del primo album ma ha già scritto qualcosa del secondo e tutta una serie di brani (sei, non pochi) che in quella forma non arriveranno mai su disco e spariranno in fretta dalle scalette – Just Please Leave Me, If The Rain Comes, materiale per gli studi più che per il piacere.
Una delle canzoni nuove è Phantasmagoria In Two, un’altra è I Never Asked To Be Your Mountain, l’accorata presa di distanza da Mary Guibert e dal bambino che è nato in quei mesi, Jeffrey. C’è anche Dolphins, quel meraviglioso Fred Neil che Tim ha scoperto da poco e gli farà compagnia tutta la vita – finirà per inciderlo solo da grande, anzi, da vecchio secondo la crudele cronologia Buckleyana, su Sefronia. Neil è un maestro di libertà , come l’insolente maledetto Tim Hardin, e a quegli insegnamenti Tim sta abbeverandosi per crescere. Ma è presto, il set del Folklore Center lo vede ancora prigioniero di quel canto di gola forzato, strepitante, che aveva segnato il primo album. Joan Baez lo guida da vicino, troppo vicino (uno spartito giusto dietro la sua testa, nella foto di Gahr). Ci vorrà ancora un anno per trovare la via giusta, dovrà passare sotto i ponti l’acqua delle canzoni di Goodbye & Hello’ e degli arrangiamenti di Jerry Yester prima che Tim si chiarisca e si capisca – Happy/ Sad, quella l’incantevole svolta.
Buckley tornò altre volte al Folklore Center, ma non per cantare. Izzy Young era rimasto colpito da quel ragazzo e si impegnò a intervistarlo, anche se poi non elaborò quegli appunti. Llew Llewellyn li ha recuperati per le note del CD e ne ha estratto il succo. Tim parla dei suoi amori e delle sue speranze, omaggia non senza critiche Dylan, si genuflette davanti a Fred Neil e Pete Seeger, ha parole ammirate per Cohen. Crede nella musica acustica, ha il sospetto che l’elettricità possa “ostacolare la comunicazione”, dice proprio così; però userà la chitarra elettrica nel nuovo album, promette, anche se quello che lo più lo affascina è un mèlange di suoni acustici ed elettrici. Non sa cosa gli riserva il futuro ma non è pessimista. Fatalista, piuttosto: “Di solito le cose cadono al posto giusto.”
Izzy Young chiuse il Folklore Center di MacDougal Street nel 1973. Gli anni del folk erano svaniti da un pezzo, rischiava di gestire un tempietto della nostalgia e non gli piaceva. Si innamorò di musica svedese, andò a stare a Stoccolma e lì rifondò un Folklore Centrum attivo per anni. Portò con sè quegli appunti e quel nastro e se li dimenticò, o forse inconsciamente attese il momento in cui “le cose cadono al posto giusto”. Quel momento è arrivato, e Young ha di che gloriarsi. Il concerto fu una sua idea e poi: “Fui il produttore? Certo! Il pulsante del Nagra lo schiacciai io.”
Riccardo Bertoncelli
Related Articles
No user responded in this post
Leave A Reply