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di Simona Orlando
ROMA (25 novembre) – In occasione della scorsa tappa a Bologna del Resistance Tour abbiamo incontrato Chris Wolstenholme, bassista dei Muse sin dagli esordi, che ha tirato le somme dopo dieci milioni di dischi venduti nel mondo e un bottino di premi e riconoscimenti. In attesa del concerto del 4 dicembre al Palaolimpico di Torino, la band incassa l’ennesimo sold out l’11 settembre 2010 allo stadio londinese di Wembley e conferma il concerto del prossimo 8 giugno a San Siro. Dalle ore 9.00 del 27 novembre i biglietti saranno acquistabili on-line sul sito www.ticketone.it mentre dal 30 novembre saranno disponibili in tutte le prevendite autorizzate.
Che rapporto avete con l’Italia?
«Visto che Matt vive qui, ci passiamo molto tempo, abbiamo registrato l’intero album sul Lago di Como, facciamo spesso le prove in sale italiane. Per tutti noi è una seconda casa. E’ un paese che amiamo perché è uno dei primi che ci ha accolto, la gente ha da subito reagito positivamente alla nostra musica».
Quale visione politica avete di questo paese?
«Siamo sommersi dalle notizie e questo non aiuta a formarsi un’idea chiara. La stampa parla male del proprio governo ovunque, ma alla fine nemmeno l’Inghilterra è così orribile come sembra. Abbiamo imparato a non farci influenzare troppo dall’informazione. Il miglior modo per giudicare il paese è prendere in considerazione le persone che realmente lo abitano, non la classe dirigente, generalmente composta da idioti».
Che tipo di “resistenza†fate nella vita quotidiana?
«La resistenza a un sistema che non si condivide si basa anche su scelte piccole, tipo cosa comprare al supermercato, cosa guardare in tv. Oggi viviamo un momento storico in cui ci viene detto cosa dobbiamo fare, cosa possiamo fare, in cui si parla di civiltà ma si violano i diritti umani. Noi vorremmo che ognuno si riprendesse la propria libertà , l’unica legge che può limitarla è “non danneggiare gli altriâ€. Intendiamo vivere il più felicemente possibile ferendo e offendendo il meno possibile. Personalmente facciamo una scelta di resistenza anche sui prodotti che usiamo: abbiamo boicottato la Nestlé, evitiamo le marche che non tengono un comportamento eticamente corretto verso i lavoratori, compriamo prodotti del mercato equosolidale, sperando di dare i soldi direttamente ai contadini senza passare per gli intermediari. Una volta c’era meno accesso alle informazioni e la gente era più ingenua, oggi, se abbiamo voglia di conoscere i retroscena dei commerci, non abbiamo più scuse».
Che percorso sentite di aver fatto fino a oggi?
«Quando sei dentro il successo, fai fatica anche a notarlo. Mentre componi o registri in studio le cose sembrano uguali a prima perché internamente alla band niente è realmente cambiato, stessi componenti, amici come sempre. Realizzi cosa è accaduto solo quando ti fermi, magari per sei mesi, e tiri le somme. Quando riempi lo stadio di Wembley o ti scelgono come headliner a Glastonbury, capisci che stai facendo esattamente ciò che sognavamo da ragazzini. Ricordi che significava per te vedere un gruppo come i Rage Against The Machine al Reading Festival e improvvisamente hai ben chiaro da dove vieni. Mentre suonavo a Wembley ho trascorso gran parte del tempo a pensare a quando ci esibivamo una volta al mese in qualche club sgangherato. Gli ultimi dieci anni sono davvero volati via».
E musicalmente che evoluzione vi riconoscete?
«Abbiamo esplorato moltissimo, anche rispetto a ciò che facevamo prima di Showbiz. In quello che facciamo oggi ritrovo vecchi elementi fondativi, in alcune demo riconosco gli embrioni di quello che siamo. In altri casi ascolto pile di vecchie registrazioni e mi sento milioni di chilometri distante. Sembra un gruppo radicalmente diverso».
Che periodo musicale citate più volentieri?
«Ho questa teoria secondo cui i cicli musicali tornano ogni dieci anni circa. Quando fai musica, la decade precedente a te sembra sempre la più sfigata. Nei ‘90 tutto era influenzato dai ‘70, noi compresi. Negli ‘80 è esplosa l’elettronica e si snobbavano gli anni ’70. Nei ‘90 si parlava malissimo degli anni ’80, che ora sono tornati in auge. Fra poco ci sarà forse un ritorno al grunge dei Nirvana. Nel nostro caso l’elettronica e l’uso dei sintetizzatori degli anni ‘80 ci ha influenzato molto, ma un brano come United States of Eurasia è, per esempio, smaccatamente Seventies. Abbiamo preso tutto e tentato di proporlo a nostro modo, di modernizzarlo. Non vogliamo suonare come nessun’altra band».
Dopo questi tour monumentali, non sentite il bisogno di tornare ad una proporzione più normale?
«Abbiamo avuto la fortuna di fare un paio di piccoli club prima che uscisse The Resistance e ci siamo davvero divertiti. E’ bello vedere le singole facce del pubblico, c’è atmosfera festosa, non ti senti separato dalla folla, ma la maggior parte dei nostri brani non può prescindere dalla dimensione del luogo e dall’attrezzatura, non funzionerebbero allo stesso modo in una stanza. La stessa United States of Eurasia non ha senso senza diecimila persone davanti. Non rinunceremmo mai a fare grandi show per un tour in posti più a misura d’uomo, ma ci piacerebbe farli simultaneamente, per non dimenticare nulla».
In America non avete sfondato come in Europa. Che motivazione vi siete dati?
«Lì siamo due album indietro. Quando nel ‘99 uscì Showbiz la nostra etichetta americana non comprese bene il potenziale dei Muse. Mentre in Europa battevamo sui concerti ogni sera finché il passaparola non ci ha resi noti e lanciati in classifica, in America tutto era volto solo a sfondare in radio e le nostre canzoni non erano abbastanza potenti. L’etichetta aspettava il brano giusto, nel frattempo spopolavano i Radiohead e le radio non erano interessate a passare un altro gruppo simile. Absolution è stato il primo album ad essere conosciuto su suolo statunitense».
A Quelli che il calcio, dove vi siete scambiati di ruolo senza che la Ventura e i suoi autori se ne accorgessero, vi siete divertiti?
«Moltissimo. Non ci è mai piaciuto mimare. In Inghilterra come in Italia non esistono quasi più programmi in cui puoi fare il tuo lavoro, cioè suonare dal vivo. La casa discografica però vuole ovviamente che promuovi il singolo in televisione, quindi la soluzione che ti resta è fare il playback difendendoti, mostrando che non condividi l’idea. In passato io e Dom ci scambiavamo gli strumenti spesso, stavolta però abbiamo deciso di spingerci ancora oltre. Abbiamo mandato il batterista al microfono da Simona Ventura e lui era visibilmente nervoso perché, essendo abituato a stare dietro, si trovava a disagio in posizione da performer. Non pensavamo di riuscire nello scherzo così bene. Durante la prima prova in studio tenevamo i nostri ruoli regolari, durante la seconda prova ce li siamo scambiati e nessuno dei presenti ha obiettato nulla. Poi nella diretta Matt si è seduto dietro la batteria esasperando ogni gesto mentre il pubblico rideva a crepapelle. Se devi mimare, che sia nel modo più buffo possibile».
La Ventura si è risentita?
«Non ci è arrivata voce, non so neppure se si è ancora accorta di ciò che è successo».
Il tour del 2010 sarà diverso dall’attuale?
«Sempre spettacolare. Ci sarà qualche modifica in scaletta e stavolta tenteremo di convivere con un’orchestra. Staremo a vedere».
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