Chi legge Linus e segue delrock già conosce Mulatu Astatke, il padre dell’ethio jazz, onorato con una devota celebrazione mesi fa per la sua collaborazione con gli Heliocentrics (uno dei dischi dell’anno, sia chiaro). Qui, per estendere il discorso e recuperare le radici, una antologia di sue pagine tra America, Etiopia e Gran Bretagna dal 1965 al 1975, in situazioni e con collaboratori diversi.
E’ un affascinante juke box di canzoni che suonano selvatiche alle nostre vaselinate orecchie occidentali, ballabili irregolari, solenni marce, colonne sonore di esoteriche cerimonie. Nato in Etiopia, cresciuto in Galles e negli Stati Uniti ma presto tornato nell’Africa profonda, Mulatu ha elaborato negli anni il suo appassionato paradossale “ethio jazz”, combinando le suggestioni delle orchestre jazz e dei combo R&B con i canti popolari delle molte tribù etiopi e la scala pentatonica usata in quella parte del mondo, e il gospel locale, gli inni liturgici della chiesa copta. Una musica dalla forte componente ritmica, nuova e moderna senza recidere i legami con il passato, con i colori vividi degli strumenti tradizionali: il krar per esempio, una sorta di lira etiope che Mulatu ha modificato da 6 a 12 corde, o un vibrafono con barre in alluminio che è il suo strumento più caratteristico.
Un album meraviglioso per tutti i curiosi di musica, quelli veri, non quelli che fanno i fenomeni magnificando luccicanti fondi di bottiglia, con irresistibili momenti soprattutto di musica strumentale (la flessuosa firma svolazzante di Mulatu, l’intarsio di tastiere povere e chitarre funky di Yekitir Tezeta, il tema “spaziale” di Dewel, in contatto non solo telepatico con la Arkestra di Sun Ra). Pura magia e un dubbio sottile: l’avessimo ascoltata in diretta, questa musica, chissà come avrebbe mutato la nostra percezione del jazz di quel tempo e come oggi la valuteremmo.
Riccardo Bertoncelli
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