DEPECHE MODE
Sounds Of The Universe
L’idea di base del nuovo album è omaggiare il futurismo anni 70/80: synth e attrezzatura vintage, suoni “spaziali”, dicotomia aria/claustrofobia, senso d’infinito. Non questo grande salto nel vuoto, in anni in cui il citazionismo e il ripescaggio sono pane quotidiano e frutto di molte esaltazioni posticce (specie in questo ambito): certo però un passaggio curioso per una band che, bene o male, era riuscita ad adeguare il suo marchio di fabbrica ai tempi moderni, curandosi di restare sempre riconoscibile e in fin dei conti somigliante solo a sé stessa e non ad altro/i.Â
Lanciato dal singolo “Wrong” – un breve, ottuso, pulsante e radiofonico inno nichilista – “Sounds Of The Universe” mostra già a un primo ascolto di avere un cuore che batte in tutt’altra direzione. Il rapporto fra songwriting e suono pende decisamente dalla parte del secondo elemento e, anziché la ricerca delle cadenze più pop, a essere privilegiato è il lavoro d’atmosfera. Il gusto retrò e robotico dei synth si sfoga in midtempo ariose, come “Fragile Tension”, “In Sympathy” o “Come Back”, in cui la melodia è mero mezzo per far distendere le strutture sonore.Â
La nota dolente della scelta dei Depeche Mode risiede però proprio nelle loro caratteristiche reali, effettive: artigiani del suono, privi oggi di quei guizzi di genio della loro prima maturità , divenuti fini interpreti di un’epoca proprio grazie alla loro scrittura classica, perché no “canzonettara”. Togliere calore e incisività  significa di fatto eliminare la sostanza dalle canzoni di Gore, scadendo così in una forma priva di vitalismo: semmai ricca di classe – salvo cadute nel mero marchio - ma in fin dei conti vacua.Â
Sicché risulta inutile affastellare organo, beat, chitarre e tastiere nel lungo canto d’iniziazione “In Chains”, cadavere di uno già scritto dozzine di volte, o navigare nel passato di astronauti come nel tanto caruccio quanto banale strumentale “Spacewalker”. Quest’ibrido di Depeche non convince proprio per nulla, e a risultare migliori sono i brani più distanti: “Hole To Feed”, seppur anch’essa suoni parecchio… già suonata, col suo passo più spigoloso e non compromissorio; o meglio ancora la ballata “Jezebel”, un tetro romanticismo anni 60 frutto della penna di Gahan.Â
Qualche palese b-side (“Little Soul”), un singolo non riuscito (l’eccesso di pathos “Peace”) e poco altro concludono un album vittima di un’ambizione malriposta, con poche cose da salvare e fra i peggiori della discografia della band albionica.
(13/04/2009)
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