Sunshine Superman non era un concept album ma nemmeno una semplice collezione di brani; perché c’era un clima unitario, un colore che dava coesione, un filo che univa punti lontani come le canzoni radiofoniche e ballate da camera
(Donovan aveva già sistemato il catalogo anni fa, con restauri e recuperi d’archivio peraltro criticati. Il remastering dell’edizione mono di Sunshine Superman, soprattutto, aveva scatenato una rivolta tra i cultori, indignati per la scarsa qualità. Non è chiaro se si debba a questa sommossa o al ritrovato amore di Donovan per la sua opera, riproposta di recente con orchestra alla Royal Albert Hall, fatto sta che alla EMI hanno sentito il bisogno di tornare sul tema e a soli sei anni di distanza licenziare una nuova edizione. Idea ottima, realizzazione imperfetta, ma solo perché il secondo CD è il famigerato “mono 2005 remastering”. In realtà il primo disco è una meraviglia, con il restauro dello stereo originale colpevolmente trascurato all’epoca; un ascolto comparato è davvero sconvolgente, dopo le certosine cure del tecnico peter Mew è come se Sunshine Superman nascesse a nuova vita, con le sue delicate cromie e il brillante gusto psico barocco.
Quanto al repertorio, è un pasticciato incompleto mix dei tre LP del periodo: Sunshine Superman e Mellow Yellow per la Epic americana, Sunshine Superman per la PYE britannica. Trentaquattro brani in tutto, sette più della precedente edizione: che però ha un paio di demo che qui non ci sono, secondo un brutto vizio ormai ricorrente – le nuove edizioni non sostituiscono mai del tutto le precedenti.)
Vibravano radiazioni potenti nel 1966, e il DNA di molti artisti ne fu sconvolto. Donovan, per esempio. Era emerso due anni prima come menestrello gentile e aveva ottenuto successo con una signolare mistura di folk inglese e americano. “La risposta britannica a Dylan”, avevano esagerato i giornali, ma non era proprio così. Perché Donovan interpretava sì “canzoni di protesta” (Universal Soldier di Buffy Saint Marie, per esempio, o la potente The War Drags On di Mick Softley) ma non aveva e non voleva avere grinta, pathos, rabbia militante; e lo confermava in altri brani, quando trattava l’amore e la vita spalancando chiari occhi da fanciullino e in Summer Day Reflection Song, in Ballad Of A Crystal Man, in Turquoise si rivelava per quello che era, un tenero poeta intimista.
Poi appunto venne il 1966 e tutto cambiò. Donovan cominciò a prendere colorate pastiglie che ne mutarono la percezione, dissolvendo i paesaggi medioevali e di Greenwich Village per uno strano Paese delle Meraviglie, che un po’ somigliava a Pepperland e un po’ anticipava certi scenari Progressive. Con quelle acrobazie avrebbe finito per rompersi le ossa ma per una breve stagione si trovò sul tetto del mondo rock, e in anticipo sugli altri. Fu allora che compose il suo capolavoro, Sunshine Superman, aiutato da un produttore disposto a lasciarlo fare (Mickie Most) e da una serie di giovani musicisti di valore (Cyrus Faryar, Jimmy Page, Shawn Phillips al sitar). Fate conto che le prime registrazioni risalgono addirittura alla fine del 1965, e il nucleo dell’album era già pronto nella primavera dell’anno dopo. Fosse uscito per tempo, prima di Revolver e di Pet Sounds, sarebbe stato una bomba atomica. Ma un cambio di management e beghe discografiche ne ritardarono la pubblicazione e finirono con l’attutirne l’esplosiva sorpresa. Arrivò nei negozi USA solo alla fine dell’estate e in Gran Bretagna addirittura nel 1967, quando Donovan aveva già digerito quel repertorio ed era passato ad altro (e in effetti l’edizione britannica è un discutibile mix tra il disco americano e il successivo Mellow Yellow).
Sunshine Superman non era un concept album ma nemmeno una semplice collezione di brani; perché c’era un clima unitario, un colore che dava coesione, un filo che univa punti lontani come le canzoni radiofoniche (Sunshine Superman, grande hit del periodo, e Season Of The Witch, gettonatissimo riff) e ballate da camera che invece non sarebbero mai uscite da ristretti ascolti di culto (Legend Of A Girl Child Linda, Guinevere, Celeste). Il filo era il Mondo Nuovo che si stava profilando, erano la liberà e la curiosità di una generazione innamorata di musica che spalancava porte e rivoltava cassetti, trovandoci di tutto. In quel disco, Donovan si rivelava uno dei più smaniosi cercatori della nuova specie. Il suo repertorio era un magic box con sgherre canzoni rock e sognanti armonie elisabettiane, melodismi pop, sitar ronzanti, malizie psichedeliche. Di lì a poco il ragazzo avrebbe abbracciato la Meditazione Trascendentale del Maharishi Mahaheshi Yogi, il guru dei Beatles, ma in quei mesi la vinceva ancora l’eccitante promessa psichedelica. Così Sunshine Superman è ricco di riferimenti alla droga, dall’allusiva title track alla trasparente The Trip (con lo schermo di copertura di un club a Los Angeles che si chiamava così) fino al volo magico di The Fat Angel, dedicato ai Jefferson Airplane e ai ragazzi che di lì a poco metteranno in scena l’ “estate dell’amore” – Paul e Grace ricambieranno con gratitudine, inserendo la canzone nelle loro scalette live.
E’ straordinario come Donovan sia stato svalutato negli anni e di come di lui si ricordino solo certe appiccicose pagine di fine ’60, quando era diventato un imbarazzante menestrello hippie. Pur con le sue ingenuità ed esagerazioni, Sunshine Superman vale più di quei lugohi comuni e comunque fotografa bene una cruciale stagione della cultura rock. Come scriveva nelle note il Superman in persona: “favole per bambini che stanno crescendo”.
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