Il prossimo anno sarà il centenario della nascita di Woody Guthrie, ed è facile immaginare che molto si parlerà di quel gigante dalla vita fragile, che sparì dalla scena prima dei cinquant’anni per una grave malattia ma anche da un letto di ospedale segnò la vita della musica americana, padre putativo del folk revival anni ’60 e del suo campione migliore, Bob Dylan.
Qui si parte per tempo con un tributo ufficiale, ideato e sovrinteso dalla figlia Nora. Ha selezionato negli archivi pagine inedite e schizzi di musica del babbo e li ha affidati al contrabbassista Rob Wasserman, che li ha fatti girare tra amici e conoscenti. Viene in mente un progetto del genere di una dozzina d’anni fa (Billy Bragg con i Wilco, i due volumi di Mermaid Avenue), ma questa volta è diverso; molte più mani e teste, molti stili che ruotano, un Woody Guthrie spinto fuori dalla stanza del folk per liberi comizi nella risonante America dei nostri giorni.
È un cambio di prospettiva con luci e ombre. Non sono più Tom Morello, Lou Reed, Ani DiFranco, Madeleine Peyroux (per dire solo alcuni degli ospiti) che interpretano Guthrie ma il vecchio maestro che dal profondo del tempo ha scritto un testo per loro; la musica quindi potrà essere tradizionalmente Guthriana (Ease My Revolutionary Mind, di Morello) ma anche profondamente diversa (il jazz rap di Kurt Elling, lo scorticato blues di Chris Whitley) o aderire come un guanto al più tipico stile dell’interprete (Lou Reed e The Debt I Owe, Jackson Browne e You Know The Night). Si resta frastornati ma probabilmente è il prezzo da pagare per non fare gli archeologhi o gli imbalsamatori. Woody non è il vecchio malato che Dylan ragazzino andava a trovare al Greystone Hospital ma il fratellino di Ani DiFranco che le porge le rime di Voice, il deejay che gira per i locali underground con Michael Franti con la sensuale Union Love Juice, capace per un miracolo di risalire la corrente del tempo e diventare più giovane del vecchio compagno Pete Seeger, che non poteva mancare all’appuntamento e infatti non manca (There’s A Feeling In The Music, con Tony Trischka).
La title track non ha testo e sta all’inizio, come uno stravagante cappello. Non so da che appunti venga, certo Woody non avrebbe mai arrangiato così. Ma Van Dyke Parks sì, è il suo stile, è il suo american kitsch, e visto che la strada è quella dello straniamento e della sorpresa, va benissimo un incredibile Guthrie così.
Related Articles
No user responded in this post
Leave A Reply