Nel corso della mia carriera non ho mai smesso di scrivere delle stesse cose. Ossessioni – le ho davanti ogni istante, non mi lasciano mai. Sempre vibranti, sempre ricche di possibilità” Nick Cave raccontava così, nel 1996, genesi e filosofia del suo nono album, Murder Ballads. Era un’abbagliante eccezione nella discografia e nello stesso tempo un disco logico e consequenziale; perché raccoglieva “canzoni troppo lunghe e strane da inserire nella scaletta di un disco normale” eppure si intonava perfettamente con il repertorio precedente, specie con le opere giovanili marchiate da quello che Cave ha sempre amato definire “linguaggio della violenza”.
Il titolo era trasparente: tra l’appassionato e il parodistico delle ballate di sangue che i cantastorie di un tempo cantavano agli angoli delle strade e i tipografi inchiostravano nei loro feuilletons, a impressionare il popolo già allora affamato di storie nere. Per descrivere questo eterno “legno storto” Cave avrebbe potuto usare il presente, la cronaca del pianeta 1996 – avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta. Ma l’attualità è grigia e le parole che la descrivono corrono il rischio della mediocrità; e poi, pesante com’è, riesce difficile giocarci come il prestigiatore Cave si era messo in testa di fare. Le storie gotiche di Murder Ballads invece, immerse in paesaggi all’apparenza lontani, hanno colori accesi, un gusto ruspante, l’aria fine delle fiabe; e e si può raccontarle con i modi e i toni di uno stornellatore, appassionato ed esagerato, paradossale, anche perfido. L’assassino di Elisa Day in Where The Wild Roses Grow sussurra alla sua vittima “la bellezza è destinata a morire” mentre la sopprime, piantandole una rosa in mezzo ai denti; e la piccola Loretta di The Curse Of Millihaven sparge morte con infantile letizia, convinta che “prima o poi tutte le creature di Dio debbono lasciare questa terra”.
Cave non è solo attratto da ciò che racconta, ne è proprio innamorato; e nella pugnalatrice d’amore di Henry Lee, nel depravato Stagger Lee disposto a rinunciare “a cinquanta e più belle ragazze per il culo paffuto di un ragazzino”, nel cadavere di Mary Bellows “riversa sul letto/ con uno straccio in bocca e un proiettile in testa” cerca scrupolosamente, smaniosamente della poesia. E’ un vino forte che degusta poco per volta, assaporando ogni gesto di quegli eroi sciagurati, ogni fremito delle povere vittime – indagando, elencando, soffermandosi sui dettagli. E’ attento ai suoi personaggi, e comprensivo. Lo sterminatore di O’Malleys’ Bar, spiega provocando, compie la strage per “legittima ricerca spirituale, un modo per aggiungere un po’ di qualità e senso alla propria vita.” Non è un malvagio, come una delle sue vittime gli urla prima di stramazzare in una pozza di sangue, è solo “il prodotto di un mondo dannato”.
Cave meditò a lungo l’album e confessò di averlo altrettanto a lungo nascosto agli altri, difendendo un’idea che era sua e solo sua. Alla fine si convinse ad aprirsi e dai musicisti coinvolti ebbe in cambio preziosi consigli e ceselli fondamentali per la musica. Fu anche grazie a Blixa Bargeld, Mick Harvey, Thomas Wydler, Warren Ellis e Jim Sclavonous (i centurioni fedeli, i Semi più resistenti) che Murder Ballads assunse la sua originale connotazione: un album di gotici blues, di equivoche ballate gentili, di gesti sonori pacati – solo la polka martellante di The Curse Of Millihaven increspava la superficie di quel lago degli orrori. E fu grazie a PJ Harvey e a Kylie Minogue, protagoniste di due memorabili duetti, che l’album smosse l’interesse del pubblico e diventò, a sorpresa, non solo un culto per la critica ma anche un successo commerciale. Con PJ, una delle sue donne di cuori di quegli anni, Cave sceneggiò Henry Lee, torbida storia di una donna che si vendica di un tradimento gettando l’amato in un pozzo; mentre a Kylie, la starlettina da classifica che non avresti detto, offrì con sadico gusto la parte della vittima in Where The Wild Roses Grow – “lui arrivò con una rosa rossa/ Disse: ‘Mi darai la tua perdizione e il tuo dolore?’/ Dal mio letto feci cenno di sì./ Mi disse: ‘Se ti mostrerò le rose, mi seguirai?’
Murder Ballads si chiude con una cover minore di Dylan, Death Is Not The End, un brano del 1983 che dopo tanto sconvolgimento assume una nuova e inquietante identità. “La morte non è la fine” pareva, prima di questo sigillo, un lampo di speranza, un inno alla Vita oltre il transito terreno. Ma a questo punto il senso cambia. Neanche la morte finisce, ecco quanto, neanche quella può liberarci da un destino di perdizione e violenza. Con un brivido voluttuoso, Nick Cave si consegna alle sue ossessioni per l’eternità. Senza nessun anniversario alle viste ma solo per scrupolo d’archivio, Nick Cave ha terminato di rimasterizzare i suoi album più classici; quest’ultima tornata comprende Let Love In, Murder Ballads, The Boatman’s Call e No More Shall We Part, dal 1994 al 2001. Il bonus di questa edizione è il DVD aggiunto, che presenta quattro inediti, tre video e un cortometraggio (la parte numero 9 di Do You Love Me Like I Love You) oltre a un remix dell&rsquo ;album and stereo. Tutto il materiale audio e video è anche disponibile per un download in formato MP3.)
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