John Barleycorne Must Die-DeLuxe Edition
Traffic
Voto: 4 stelle
Casa discografica: Island
Anno: 2011
All’alba del 1970 Stevie Winwood non aveva ancora 22 anni ma poteva già vantare una storia lunga come l’elenco telefonico. Enfant prodige della scena beat, era stato il cantante e organista nelle più belle incisioni dello Spencer Davis Group e non ancora ventenne aveva incendiato la scena con il soul rock dei Traffic, prima di abbandonare anche quella intrapresa per un clamoroso supergruppo con Eric Clapton, i Blind Faith. Per misteriose ragioni quella band aveva fallito, bruciandosi in pochi mesi, e con il nuovo decennio il nostro generale ragazzino si era trovato a contemplare il campo di battaglia senza sapere bene in che direzione muoversi.
La prima idea che gli era venuta era stata quella di un album “solo”, una tappa inevitabile vista la progressione, e per quello aveva cominciato a registrare con il produttore Guy Stevens. Ma era più semplice a dirsi che a farsi. Per quanto Stevie fosse un provetto polistrumentista, gli piaceva troppo confrontarsi con altri musicisti e così nel giro di poco tempo si ritrovò a lavorare con un paio dei compagni che solo un anno prima aveva accomiatato: Jim Capaldi, il batterista, e Chris Wood, che nel frattempo aveva prestato i suoi fiati a Dr. John e agli Airforce di Ginger Baker. Restava fuori Dave Mason, il chitarrista, che fortemente aveva scelto la strada solistica; e siccome Winwood non si era mai preso troppo bene con lui, non fu un problema, anzi un sollievo, rifondare i Traffic come trio.
Winwood e Stevens avevano già registrato tre demo e scelto anche il titolo dell’album, Mad Shadows. Marcia indietro. Il produttore fu accompagnato alla porta da Chris Blackwell, il signor Island, e portò il nome in dote ai suoi protetti Mott The Hoople. Quanto ai tre pezzi, uno fu scartato (Sittin’ Here Thinkin’ Of My Love) e due risistemati con il contributo importante di Capaldi (Stranger To Himself e Every Mothers Son). Erano belle canzoni di soul bianco che funsero da pietra d’angolo per un disco tutto così, fuligginoso e asprigno da un lato, rilassato e pop dall’altro. Eppure, per la contraddizione che lo consente (eccome!, il rock vive di contraddizioni), John Barleycorne viene ricordato come un pezzo insolito di Prog quando non un artefatto di folk rock, della stessa specie di Liege & Lief (l’album Fairport uscito in quegli stessi mesi), a non troppa distanza dal terzo album degli Zeppelin.
Tutto questo si deve a una canzone sola, la title track, e anche alla grafica, con disegni da vecchio calendario agricolo e la scelta di usare un ruvido cartoncino anticato anziché colori scintillanti e clarifoil. Nei suoi viaggi curiosi nel mondo della musica, Winwood aveva scoperto una vecchissima ballata medioevale ripresa oltre cento volte da cantastorie tradizionali nelle più diverse regioni britanniche; parlava di alcol e distillazioni clandestine ma più che altro evocava un antico mondo contadino che in quei giorni di pausa e smarrimento dopo gli eccessi della psichedelia sembrava la terra promessa. Winwood arrangiò la ballad per chitarra acustica, tamburello e flauto e le diede importanza intitolandoci l’album; anche se la musica intorno era tutt’altra, come dimostravano non solo i due brani sopravvissuti al progetto Mad Shadows ma anche Empty Pages e Freedom Rider, gli altri inediti che il leader e Capaldi avevano firmato riprendendo felicemente il discorso dei primi Traffic. C’era poi Glad, l’unico strumentale del lotto e il pezzo forse più accattivante, certo il più ricordato nel tempo: uno svelto ballabile che rifaceva il verso al funk jazz di Watermelon Man o di The In Crowd, ideale per sigle radio o TV (come in Italia capitò a Per voi giovani, negli anni d’oro della sua programmazione).
L’album uscì a luglio del 1970 e ottenne buoni risultati, entrando nei Top 10 in patria e sfiorandoli negli Stati Uniti; il risultato migliore di una carriera controversa, con più fama che vendite e, forse anche, più promesse che risultati effettivi. Rinfrancati, i Traffic decisero di portare il disco in scena e affrontarono un tour americano con l’aiuto di un quarto elemento, il bassista Ric Grech, già con i Family. Bella idea e belle vibrazioni, culminate in due sere di novembre sul palco del Fillmore East di New York. La Island mandò uno studio mobile a registrare vagheggiando un live ma purtroppo abbandonò l’idea. Un vero peccato. Con il senno di poi sappiamo che John Barleycorne non fu solo una delle opere più influenti di quella stagione ma anche il culmine dell’avventura Traffic, prima di un lungo e tortuoso viale del tramonto.
Quei nastri abbandonati negli archivi Island (per un Live November 70, così avrebbe dovuto chiamarsi) sono il tesoro di questa edizione deluxe approntata dalla Island in ritardo di qualche mese rispetto al quarantennale dell’album. Sono sei brani più la presentazione in scena, per un totale di 50 minuti circa, che occupano larga parte del secondo CD, curato da Winwood in persona; oltre ai pezzi dal vivo ci sono due alternate mix delle canzoni con Guy Stevens e una prima bozza del traditional che intitola il disco. La nuova edizione è più eclatante delle precedenti ma è giusto dire che l’album era già stato rimasterizzato anni fa nel corso di una campagna di “restauro” del catalogo Traffic classico. In quella occasione era già stato parzialmente sfruttato il Live November 70 e aggiunto un brano in studio da Mad Shadows che qui è sparito.
Come sempre più spesso accade, insomma, chi ha la vecchia edizione guadagna qualcosa ma qualcosa anche perde (vedi anche la recente versione “del quarantennale” di In The Land of Grey And Pink dei Caravan – ma ne parleremo presto).
delrock.it
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