PJ Harvey: Let England Shake (2011 – Island)
“Il punto più alto raggiunto in un’intera (grande) carriera”
di Cristiano Gruppi
il giudizio: 10/10
GENERE: cantautorato di guerra.
PROTAGONISTI: soprattutto PJ Harvey (voce, autoharp, sassofono, chitarra), John Parish (batteria, xilofono, mellotron, trombone, chitarra, voce), Mick Harvey (piano, basso, batteria, organo, percussioni, voce). Parish è anche co-produttore, insieme a Flood.
SEGNI PARTICOLARI: ottavo album in studio per la cantautrice inglese, è stato registrato in una chiesa del 19° secolo nel Dorset (immortalata in una delle foto del booklet). Per la prima volta in carriera PJ suona l’autoharp e il sassofono. Ogni canzone è accompagnata da un video girato dal fotografo di guerra Seamus Murphy, che la Harvey ha voluto conoscere dopo aver visto una sua mostra sull’Afghanistan.
INGREDIENTI: diverso da tutti i dischi precedenti della Harvey, ‘Let England Shake’ ha un suono allo stesso tempo piuttosto minimale ma anche molto curato negli arrangiamenti, che utilizzano una strumentazione vastissima e in alcuni frangenti inusuale (l’autoharp di cui sopra è lo strumento posto al centro del lavoro compositivo). La voce della cantautrice è spesso sussurrata e mai sopra la righe: a suo dire ciò è dovuto alla funzione narrativa che le liriche espletano in questo LP, dedicato interamente alla propria madrepatria ma focalizzato soprattutto sul tema della guerra; evocante continuamente, sia con la musica che con i testi, immagini di conflitti, con riferimenti precisi alla campagna dei Gallipoli (Turchia) del 1915, in cui moltissimi soldati inglesi persero la vita per ottenere il controllo dello stretto dei Dardanelli. Il piano fallì miseramente e si registrarono 250.000 perdite tra morti e feriti, praticamente la metà degli effettivi dell’Intesa inviati in Turchia.
DENSITÀ DI QUALITÀ: basterebbe l’eleganza e la bellezza tout-court delle canzoni per elevare quest’album tra i migliori degli ultimi anni. A ciò si aggiunge l’incredibile efficacia poetica dei testi di Polly Jean, un pugno nello stomaco dietro l’altro che rendono vivide le immagini di morte e distruzione che si susseguono come un documentario in bianco e nero sulle nefandezze della prima guerra mondiale. In più, ci troviamo di fronte ad un team produttivo eccezionale, che utilizza la vasta strumentazione selezionandola sempre al meglio e sempre nel momento più adatto. Un capolavoro dietro l’altro sono le prime 4 tracce, a cominciare dall’iniziale ‘Let England Shake’, che apre con una ritmica apparentemente allegra per poi raffigurare il destino segnato di un soldato al fronte. Grande sognwriting continua ad accompagnarsi a poesia pura anche per ‘The Last Living Rose’, mentre fa riflettere la disillusione di ‘The Glorious Land’, che si accoppia ad un’ulteriore grande canzone, dove la chitarra di Parish sottende tagliente un crescendo che d’improvviso si blocca, come si trattasse di un imprevisto decesso. Melodicamente e liricamente eccezionale è anche ‘The Words That Maketh Murder’, che si conclude con una sorta di coro in cui le voci di Polly, Mick e John sembrano idealmente prendersi per mano. ‘All And Everyone’ riporta musicalmente alla Harvey più classica, ma è anche una sorta di marcia funebre che rende realmente intellegibili gli effetti delle uccisioni di massa causate dai conflitti. ‘On Battleship Hill’, col suo cantato etereo, pare quasi un inno alla quiete dopo la tempesta, e dopo un brano interlocutorio in tutti i sensi (‘England’), riprendono le descrizioni dei teatri di battaglia con ‘In The Dark Places’ e ‘Bitter Branches’, altro crescendo mozzafiato che non prelude a nulla di buono. ‘Hanging In The Wire’ è un altro brano onirico in cui PJ decide di usare il falsetto, un pezzo anch’esso di enorme personalità , differente da tutto quanto udito sinora ma estremamente connesso con le cupe atmosfere dell’intero lavoro. Una nuova incredibile sorpresa è ‘Written On The Forehead’, la cui base è arricchita da un coro gospel che si trasforma in un refrain reggae, sopra la quale la Harvey racconta la guerra che giunge ovunque. Chiude ‘The Colour Of The Earth’, quasi un omaggio a chi ha vissuto ed è rimasto vittima di tanto orrore. Un duetto vocale tra Polly e Mick Harvey che chiude degnamente un album che può essere senza esitazione alcuna definito il punto più alto raggiunto in un’intera (grande) carriera.
VELOCITÀ: 12 canzoni in 40 minuti.
IL TESTO: quando la crudezza delle immagini è anche poesia: “I’ve seen and done things I want to forget / I’ve seen soldiers fall like lumps of meat / Blown and shot out beyond belief / Arms and legs were in the trees”, da ‘The Words That Maketh Murder’.
LA DICHIARAZIONE: “Ho apprezzato enormemente questo suono differente, ampio, che l’autoharp riesce a dare. È piuttosto delicato, ma sembra quasi di avere un’intera orchestra tra le proprie dita. Ho iniziato a scrivere molto con l’autoharp, e dopo un po’ (quest’album è stato scritto in più di due anni e mezzo) ho cominciato a sperimentare con diverse chitarre e diverse applicazioni sonore che non avevo mai utilizzato prima.”
IL SITO: ‘Pjharvey.net’.
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