Riuichi Sakamoto è una delle personalità più influenti della musica di oggi. Compositore, performer, artista poliedrico, ha attraversato gli ultimi trent’ anni della musica popolare passando dall’ elettronica alla musica brasiliana, dalle colonne sonore alla new wave, ed è uno dei protagonisti della rivoluzione tecnologica che ha travolto lo scenario musicale. Sakamoto continua a spostare in avanti il limite della creatività mescolando generi e tecnologie che gli hanno consentito di trovare nuove forme di espressione multimediale con un gran numero e varietà di supporti. Sakamoto presenta la musica in maniera non lineare, realizzata con strumenti tecnologici di ultima generazione, capace di mettere in luce una concezione avveniristica e multisensoriale dell’ opera d’ arte e di suggerire nuove forme di coinvolgimento e partecipazione del pubblico.
Com’ è nato il suo rapporto con la tecnologia, con la musica elettronica? «Sebbene io venga dal Giappone, ho un background classico, romantico e moderno, ma al tempo stesso ero interessato alle tecnologie applicate alla musica, mi sono diplomato in composizione con una particolare attenzione alla musica etnica ed elettronica. Quando ho iniziato la carriera come musicista mi piaceva il rock tedesco degli anni settanta, e in particolare i Kraftwerk. Già collaboravo con Harumi Hosono e Yukihiro Takahashi e quando iniziammo a lavorare con la Yellow Magic Orchestra glieli feci ascoltare. Volevamo creare una versione giapponese del techno pop, perché la musica dei Kraftwerk suonava molto tedesca, noi cercavamo di rappresentare la nostra cultura. Ma volevamo anche prendere in giro gli stereotipi della musica giapponese, soprattutto quelli dei film e della tv, mescolare la tecnologia con la musica orientale che amavamo tutti. Da questo nacque la sintesi della Yellow Magic Orchestra». Eravate dei pionieri alla fine degli anni Settanta… «Sapevamo che stavamo facendo qualcosa di nuovo, avevamo molti amici musicisti che criticavano le nostre scelte, che dicevano che facevamo una musica per macchine, non umana, ma questo tipo di critiche ci confermava che stavamo facendo delle cose nuove». Come si è evoluta, secondo lei, la relazione tra musica e tecnologia? «Forse il mio punto di vista sulla relazione tra musicisti, compositori e tecnologia nella storia è viziato dalla mia esperienza, che è positiva. Ma penso che, a ben guardare, tutti i grandi compositori hanno avuto un rapporto positivo con la tecnologia, anche Bach, o Beethoven, tutti amavano nuovi gadget e tecnologie. Perché i nuovi strumenti ispirano nuove idee. E questo è vero non solo per le tecnologie applicate alla creatività , ma anche per quelle della riproduzione: quando avevamo i dischi in vinile c’ era un lato A e un lato B, perché solo una determinata quantità di musica poteva entrare in una facciata di un disco. La limitazione tecnica è stata una spinta creativa, stimolava i musicisti, prendevamo il concetto di A e B e lo trasformavano in una materia creativa, superare quelle limitazioni ci consentiva di arrivare a un livello più alto». Con la Yellow Magic Orchestra siete arrivati a creare il termine di technodelic, un misto di psichedelia e tecnologia… «Era il nostro modo di mostrare che la tecnologia era tutt’ altro che fredda e meccanica “Technodelic†era il nostro album migliore, era il più sperimentale, ma ancora molto pop. Io ci misi dentro tutti i miei studi musicali, c’ è John Cage e Stockhausen, il pop e la musica classica, l’ oriente e l’ Africa, eravamo molto liberi e mettemmo, attraverso l’ uso della tecnologia, tutte le nostre idee in quell’ album». Poter suonare qualsiasi strumento attraverso una tastiera le ha permesso di frequentare con sicurezza maggiore la musica del mondo? «Io ho sempre amato la musica, quella di tutto il mondo. Credo che la tecnologia mi abbia aiutato a suonare strumenti che non avrei potuto, quando ero giovane, avere la possibilità di provare. Ma alcune passioni musicali erano più forti di altri, come quella per la musica brasiliana. Pensi che al liceo avevo formato una band che mescolava la bossanova al free jazz. Sono sempre stato un grande ammiratore della musica del Brasile e in particolare di Antonio Carlos Jobim». Sicuramente il lavoro di compositore per colonne sonore è stato per lei molto importante… «Si, ma solo in maniera relativa. Certo, vincere un Oscar per L’ ultimo imperatore è una grande soddisfazione, ma per me il merito resta del regista, di Bertolucci. Io credo che la musica sia come i costumi, come gli ambienti, i fiori, è una parte del film, aiuta il film a sembrare migliore, è parte dell’ immagine. Il compositore deve dedicare risorse, idee e lavoro al film, solo il regista è l’ autore, il “proprietario†del film, è attorniato da tante persone ma lui è l’ unico responsabile. Se Bertolucci sapesse scrivere la musica la farebbe lui per i suoi film, io mi sono limitato a interpretare, a sentire quello che lui voleva. In realtà lavorare da solo è più difficile, quando io sono il regista, lo sceneggiatore e l’ interprete, non ho limitazioni, il panorama è così vasto che le difficoltà sono molto maggiori». Con l’ avvento degli mp3 e di Internet il mercato è cambiato. Qual è la sfida, oggi, che la tecnologia impone a un musicista? «La sfida principale è quella della sopravvivenza, perché la musica registrata è praticamente gratis. La gente non compra musica, la tendenza dei giovanissimi non è nemmeno quella di scaricare le canzoni dalla rete ma di ascoltarle direttamente su Youtube. Loro sanno che la musica è comunque su una nuvola da qualche parte nella Rete. Se la musica di Sakamoto è ovunque e gratis, come posso sopravvivere in questa società ? Non ho la risposta, ovviamente, ma il punto interessante è che centinaia di anni fa, molto prima della musica registrata, la musica era cento per cento dal vivo, c’ erano le partiture, ma non esistevano dischi o mp3. Nonostante questo la musica era sempre con noi, con gli esseri umani, e i compositori vivevano ugualmente, lo hanno fatto per migliaia di anni, potremo farlo anche noi»
mediatrek by repubblica.it
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