Halfduck Mystery
Samuel Katarro
Voto: 3 stelle e mezzo
Casa discografica: Angle
Anno: 2010
Questa primavera Samuel Katarro compie quattro anni, durante i quali ha combinato guasti notevoli grazie a una serie di accanite performances e a due album così diversi e così uguali. Oggi come agli inizi, per il nostro licantropo, la musica “è una questione un po’ evangelica, un po’ patafisica e un po’ gastrica”, la visione di un madonnaro di musica che con i suoi gessi sovrappone storia probabile e fantasie irreali, il lunatico sfogo di un incontinente che sfugge a ogni limite e format pur di esprimersi in gioia e libertà .
“Gioia”, oddìo, il termine è probabilmente inconsulto, visto che questo nuovo album, per credere a Katarro, “è un disco sulla paura e sulla vergogna, e come superarla toccando il fondo, immaginando e poi vivendo il peggio. Un po’ paranoico? No, molto”. Tuttavia queste paure, di viaggiare amare di morire, del passato del presente del futuro, non si compongono in un quadro fosco ma solo slabbrato, e anziché rilasciare pestiferi miasmi comunicano piuttosto una sorta di sollievo; come se per un attimo il cantastorie fosse riuscito a far calare un po’ la febbre nel suo congestionato cervello acchiappando qualche fantasma di quelli che lo turbano, sempre così speciali e ingombranti.
Nel primo album Katarro aveva lavorato più in solitudine, voce e chitarra acustica; qui accetta anzi cerca una eletta compagnia di ghostbusters come lui, muniti di regolamentari attrezzi elettronici ma anche violoncelli, glockenspiel, carillon, tastiere, altre corde – con molta misura, va detto, in quinta diluizione rispetto a tanti dischi d’oggi, perchè Samuel giustamente è convinto che la musica non debba essere troppo rumorosa per non coprire i cigolii dell’agitato cervello di cui sopra.
Oltre che sulla paura e vergogna, Halfduck “è un inconsapevole omaggio agli anni ’60, soprattutto per sonorità e scelte d’arrangiamento”. Come tutti i ragazzi della sua generazione, Katarro fa musica dopo avere ascoltato molti più dischi di quelli della mia, e cerca di trarre paradossale vantaggio dalla confusione che un simile carico di informazioni/suggestioni ha generato: e allora You’re An Animal (mi affido al libretto di istruzioni) “è nata come un plagio di Syd Barrett finchè gli arrangiamenti pseudosinfonici alla Scott Walker hanno fatto a pezzi l’idea originale”, 9V “potrebbe averla scritta John Lennon se fosse stato uno stronzo paranoico”, Pop Skull suona “come i Creedence Clearwater Revival con John Fogerty ipnotizzato e costretto a cantare un pezzo tutto in falsetto” e via così, in una trafelata corsa su e giù per le scale della storia rock, bussando di passaggio ai camerini di Wyatt, dei Caravan, di Byrds e Beach Boys.
Non pensate a un ordinario album di canzoni. Rustling in effetti comincia con modi quasi convenzionali ma poi l’album si perde, divaga, cade in botole più o meno profonde, e gli inciampi/ gli indugi sono parte integrante di questo cosiddetto secondo CD della cosiddetta carriera di Samuel Katarro. Peccato che il tanghero si ostini a comporre in inglese, è un problema che avevo già sollevato recensendo Beach Party. Non solo, il perfido questa volta ha voluto inserire in scaletta un omaggio alla sua maestra di lingua, centrifugando anche bucce di english lessons nel suo beverone. La prendo come una dedica agli scettici della mia specie, una dedica con sberleffo: “ciappa sù e porta a ca’”, come usano dalle mie parti, anzi, “bring it all back home”, come diceva Dylan quando da giovane (parlo il Katarrese) esprimeva “chiassosamente il desiderio che qualche buon’anima si prendesse cura della sua affezionata tartaruga d’acqua dolce”.
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