Pearl Jam
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Casa discografica: Columbia
Anno: 2009
“Dieci pezzi. Spontanei. Creazione. Emozione. Molto piacevole. Vera musica. Niente analisi. Niente pressioni. Niente chiacchiere. Solo musica. Amici e motivazione. Intesa. Bellezza. La vita vince.” Queste note stilate da Jeff Amentper l’album dei Temple Of The Dog spiegano lo spirito e il clima che animava i ragazzi di Seattle all’inizio dei ‘ 90. Il successo era lontano, la smaniosa attenzione dei media anche. “Grunge” era termine ancora sconosciuto; meglio “alternative”, meglio l’idea di suonare in libertà sfogando fantasie e cattivi pensieri in una sola, rotolante palla di fuoco.
I Temple Of The Dog erano un progetto speciale, Ament cercava in realtà una band regolare. La costruì un po’ per volta, coinvolgendo l’amico Stone Gossard e Mike McCready, entrambi chitarristi, e un eccentrico cantante non più giovanissimo che viveva dall’altra parte dell’Ovest, a San Diego –Eddie Vedder. Di giorno faceva il surfer, di notte lavorava a una pompa di benzina; fra questo e quello assorbiva musica che distillava poi in una voce emozionante. “Jeff mi mandò un nastrino con tre canzoni, io gli rimandai una mini opera,” ha avuto modo di ricordare Vedder. Preso al volo, in formazione; come di lì a poco il batterista Dave Krusen, che se ne andrà presto ma viene utile per cominciare.
Vedder arriva a Seattle a ottobre 1990 e subito si immerge in session con il gruppo; che ancora non ha deciso la sigla e sulle prime si esibisce come Mookie Blaylock, dal nome di un cestista dei New York Mets che il destino ha mandato ai ragazzi sotto forma di figurina. Pearl Jam plana sulla band a inizio ’91, e inutile domandarsi il vero significato; Vedder lo ha spiegato così tante volte in maniere così diverse che è meglio rinunciare. Pearl Jam comunque, nome forte e suggestivo che non dispiace alla Epic, la multinazionale che ha messo gli occhi sulla band e non solo gli occhi, anche un contratto. A marzo, ai London Bridge Studios di Seattle, iniziano le registrazioni per il primo LP, che nei desideri dovrebbero chiudersi in pochi giorni e vanno avanti invece per un mese e mezzo.
“Niente pressioni”, voleva il decalogo di Ament. Be’, non proprio. Pressioni ci sono così come dubbi, e confronti tra i cinque e il produttore Rick Parashar. C’è chi vuole suonare grezzo e forte, chi chiede più finezze, chi teme la sirena del commerciale. Nel dubbio si accumulano le takes, letteralmente decine per Even Flow. Alla fine si giunge a un compromesso; che peraltro torna in discussione quando i nastri vengono inviati in Gran Bretagna per un mix che lascia cuori infranti. C’è un’antipatica vernice “metal”, secondo qualcuno, o forse il disco è stato lavorato troppo e ha perso la selvatichezza che era nei desideri.
Che bello essere esigenti, che lusso, specie in tempi di bassa marea come i nostri. Riascoltati oggi, quei nastri suonano in realtà splendidi, animati da una grande energia e con il marchio della più fresca sincerità ; e il passo rallentato che non convince Vedder è in realtà la chiave per portare i PJ su un piano diverso rispetto ad altre bands e a coronare la voce con un’aura magica. E’ una generazione che prende la parola e reinventa per l’ennesima volta la formula del rock: chitarre Page-Hendrixiane in volo su una cruda realtà metropolitana, con il corpetto strettissimo della sezione ritmica e la voce che cerca spazio e sfogo - Release si chiama non a caso l’ultimo brano, “liberami liberami liberami liberami”.
Nei testi Vedder racconta la sua infanzia difficile, non così diversa da quella del “cugino” Cobain, e indugia volentieri negli angoli bui che i suoi coetanei hanno visitato e sofferto. Prende storie tristi come quelle del ragazzo abbandonato e abusato di Alive o dell’adolescente rinchiusa in clinica dai genitori perchè sorpresa a fumare erba di Why Go ma le illumina con una sbieca luce di speranza; la musica è un caos controllato, un volo di farfalle come i pensieri che illuminano il futuro dell’emarginato che in Even Flow “riposa il capo su un cuscino di cemento”. Durezza e calore, dolore e speranza: la prima musica Pearl Jam è così, stretta in canzoni brevi che hanno titoli icastici, una parola, due al massimo - Once, Flow, Alive, Why Go, Black, Jeremy, Oceans, Porch, Garden, Deep, Release.
L’album esce il 27 agosto 1991, con l’ironico affettuoso titolo di Ten; non è il numero delle canzoni (sono in realtà 11) ma la cifra sulla maglia di Mookie Blaylock, sempre lui. Vedder spiega (ma forse implora) che i Pearl Jam “non sono un blockbuster, piuttosto un film di culto” e “sarebbe deprimente promuoverci come i fenomeni del momento”. Non lo ascoltano. L’album devasta la scena rock con il gemelloNevermind dei Nirvana e finirà per vendere più di 10 milioni di copie in tutto il mondo. La gioia è mista all’inquietudine e al timore di perdere in fretta l’anima. Non andrà così. Seri e risoluti, i Pearl Jam riusciranno a non farsi divorare dal successo e a imporre modi, tempi e strategie per esprimersi al meglio.
Diciotto anni dopo la stampa originale, i PJ trovano il gusto e la voglia di rimettere mano al loro esordio, con una “special edition” offerta in quattro versioni diverse, in CD, vinile e (nella versione per collezionisti) DVD. In tutte e quattro le versioni viene riproposto l’originale, rimasterizzato, a fianco di un nuovo mix affidato a Brendan O’ Brien, produttore di fiducia. C’è spazio anche per sei bonus, demo e out takes che risalgono non solo ai giorni delle registrazioni ufficiali ma anche ai mesi precedenti, quando la band era in sboccio e non aveva ancora scelto la sigla finale.
I Pearl Jam avevano vagheggiato per anni un remix e ora il sogno realizzato è al vaglio dei fans. Sicuramente il piglio di O’Brien è più forte e adatto a questi tempi, con un suono che inchioda l’ascolto, potente, imperioso; ma forse non era sbagliata l’idea originale di sfumare i contorni e non pompare tanto la dinamica, per evitare un effetto di omologazione e dare alla band un’aura più sottile di fascino e mistero.
Riccardo Bertoncelli
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