DISCOGRAFIA:
Ballads Of Living And Dying (Eclipse, 2004)
7
The Saga Of Mayflower May (Eclipse, 2005)
8
Songs III: Bird On The Water (Peacefrog, 2007)
6,5
Little Hells (Kemado, 2009)
7
Marissa Nadler (Box Of Cedar, 2011)
6
The Sister (Box Of Cedar, 2012)
7,5
July (Sacred Bones/Bella Union, 2014)
INTERVISTA E RECENSIONE BY CLAUDIO FABRETTI di ondarock.it
Raggiungiamo ancora Marissa Nadler per un’intervista, in occasione dell’uscita del suo ultimo, prezioso album “July”, che la vede a fianco di un produttore d’eccezione come Randall Dunn (Earth, Sunn O))), Wolves In The Throne Room).
Ripartiamo da dove ci siamo lasciati nel 2005. Dopo lo splendido “The Saga Of Mayflower May” sembra che tu abbia cercato nuove direzioni per la tua musica: hai inserito synth, chitarre elettriche, drum machine… Il folk acustico cominciava a starti stretto?
Sinceramente non mi sono mai considerata un’artista “acoustic folk”. Anche in “Ballads Of Living And Dying” ci sono dei synth e un sacco di riverberi, theremin e suoni atmosferici. “Saga” è stata probabilmente una breve incursione in quel territorio, ma sono tornata subito sulle mie rotte più “atmosferiche”.
In un certo senso mi sembra che i tuoi due ultimi album, “The Sister” e “July”, mostrino le due facce della tua musica. Su “The Sister” hai ritrovato la tua miglior vena melodica con arrangiamenti semplici e scarni, mentre in “July” hai trovato il giusto equilibrio tra folk acustico e suoni elettronici. Sei d’accordo? E quali pensi siano le principali differenze tra questi due lavori?
Beh, “The Sister” lo considero sostanzialmente un Ep e non un album completo. Sono molto più soddisfatta del modo in cui è stato concepito e prodotto “July”. Mi riferisco soprattutto al fatto che in “July” le canzoni sono più approfondite, si tratta di un album completo dall’inizio alla fine. Ero stata molto contenta del mio disco omonimo del 2011, mentre “The Sister” non mi ha convinto appieno e avrei preferito davvero che fosse stato un Ep. Di “July”, invece, sono pienamente soddisfatta e credo che sia il mio album più forte fino ad oggi.
Come mai hai deciso di puntare proprio su Randall Dunn come produttore per “July”? Nonostante il suo background musicale – Earth, Sunn O))) – possa sembrare un po’ lontano dal tuo, il vostro sodalizio funziona molto bene: qual è il segreto del vostro affiatamento?
Sì, in realtà poi lui non è così distante da me musicalmente. Ho conosciuto i membri degli Earth quando ho aperto i loro concerti alcuni anni fa, conoscevo Stephen O’Malley per i Sunn O))) e ho sempre ammirato il suo lavoro. Mi sento più incline ad ascoltare musica “heavy” che musica troppo leggera. Insomma, è una collaborazione che ha un suo pieno significato, specialmente dopo che ho contribuito a prestare i miei vocals all’ultimo album di Xasthur, un artista black metal.
Randall mi ha aiutato e mi ha detto che sarebbe stato interessato a produrre il mio prossimo album: non ho pensato neanche un secondo prima di dirgli di sì. Inoltre, per essere più precisi, lui ha lavorato con Jesse Sykes e Windows, quindi sarebbe limitativo, tutto sommato, definire Randall esclusivamente un produttore drone-black-metal. Sono sicura che lui vorrebbe essere definito in senso più ampio come un produttore musicale.
Le tue canzoni hanno sempre uno spirito molto invernale, stavolta però hai intitolato il disco “July”, come nasce questa scelta?
Le canzoni dell’album seguono gli eventi della mia vita dal luglio di un anno a quello del successivo. È stato anche registrato a luglio e così il titolo è stata una scelta scontata.
“July” esce per due importanti label internazionali. Come sei riuscita a mettere in contatto Sacred Bones e Bella Union?
È una storia lunga… In ogni caso, sono entusiasta in modo indescrivibile di lavorare con entrambe le label. Posso davvero dire che oggi le cose mi stiano andando magnificamente, anche considerato quanta sfortuna ho avuto in passato.
Il videoclip del primo singolo, “Dead City Emily”, è magnifico: ce ne puoi parlare?
È stato diretto da Derrick Belcham. Le protagoniste siamo io e la ballerina Emily Turndrup. Credo che cliccandolo e vedendolo ognuno potrà farsi una sua idea sul filmato, interpretandolo a modo suo. Quindi preferisco non descriverlo e lasciare tutto all’immaginazione del pubblico.
In “Was It A Dream” racconti la fine di una storia d’amore. “Drive”scava in altri ricordi dolorosi… Ci sono eventi particolari che ti hanno ispirato questi testi?
Sì, è tutto autobiografico, molti eventi personali hanno influenzato queste canzoni, ma preferirei non aggiungere altro: chi si prenderà il tempo per ascoltare attentamente le liriche del disco potrà riuscire a comprendere davvero queste storie.
Le tue canzoni sono state spesso affollate di personaggi e al tempo stesso autobiografiche… Come riesci a combinare finzione e realtà nei tuoi testi?
In passato usavo molti personaggi, ma ormai non c’è più finzione nelle mie canzoni. Insomma, ora sto scrivendo solo “non-fiction songs”!
Prima di dedicarti alla musica eri un’ottima artista visiva, vicino alla cosiddetta new wave of American Gothic. Credi che quell’estetica sia rimasta in qualche modo presente nelle tue canzoni?
Sì, mi sono laureata alla Rhode Island School Of Design. Però non mi considero in realtà parte di un gruppo o di una scena precisa. Non vorrei, insomma, identificare in alcun modo la mia musica e la mia attività artistica con un genere preciso: mi piace pensare che ognuno sia libero di interpretarli come vuole.
Ultima domanda: hai in in programma un tour per promuovere “July” e c’è qualche possibilità di vederti in Italia?
Assolutamente sì: lo sto organizzando.
Può capitare ancora, nella frenetica giostra musicale contemporanea, di incontrare artisti che rispondono con rapidità e gentilezza alle tue domande, senza farsi desiderare e senza frapporre scomodi intermediari? Ebbene sì, è possibile se si ha a che fare con Marissa Nadler, cantautrice di Washington, che nell’anno appena trascorso ha infranto molti cuori con la sua “Saga Of Mayflower May”. Una raccolta di ballate spettrali e struggenti, nobilitate dal suo soprano cristallino e da un sobrio corredo strumentale, per lo più acustico (chitarra a dodici corde, ukulele, flauto, banjo, organo, tastiere). L’attenzione dei media specializzati di tutto il mondo (da The Wire a Pitchfork) per questo e per il suo precedente disco (“Ballads Of Living And Dying”) non ha ancora trovato in Italia un adeguato corrispettivo. Su Onda Rock, allora, andiamo orgogliosamente controcorrente: eleggiamo Marissa a folksinger del 2005 e glielo riveliamo subito, in apertura di questo nostro carteggio telematico.
Marissa, ti confesso subito di averti scelto come miglior cantautrice del 2005. Per tutti gli altri, che magari ancora non ti conoscono bene, ci puoi raccontare brevemente come si è sviluppata la tua passione per la musica e la tua carriera di folksinger?
Sono molto onorata di questi complimenti… Io sono una scrittrice, cantante e pittrice. Credo che la musica sia solo un’altra faccia del mio modo di esprimermi, di dar voce ai miei sentimenti. Da bambina, ero immersa profondamente nelle arti, e anche nella musica, ovviamente, ma ero più portata per la pittura. Ero convinta di diventare una famosa pittrice, scultrice o disegnatrice di moda. Mia madre è una pittrice e io volevo seguire le sue orme. Ma mi piaceva molto cantare: lo faccio da sempre e l’ho sempre trovato meraviglioso…
La prima vera esperienza musicale, però, è stata a 16 anni, in una band di garage-rock. Poi, ho capito che la mia voce era più adatta per altri generi musicali. Ho così approfondito la musica tradizionale degli Appalacchi, il folk, il blues e il jazz, ma senza smettere di ascoltare il rock più “classico”. Penso ancora, ad esempio, che il ” White Album ” sia meraviglioso… La musica vecchia, insomma, mi attraeva di più. Mi piacevano le storie di tristezza e desolazione e così ho iniziato a cantarle e a scriverle: sognavo di diventare una blues-singer. Ma per molto tempo sono stata troppo timida per potermi esibire in pubblico. E’ solo da un paio d’anni che ho preso il coraggio di esplorare appieno le mie potenzialità musicali, trovando finalmente la forza per cantare e suonare dal vivo.
Il tuo secondo album ci ha stregato fin dal primo ascolto. Ci puoi raccontare in cosa consiste la saga di Mayflower May? C’è una sorta di “concept” dietro? Che cosa lega le storie che racconti nelle tue canzoni?
Mayflower May, Flora Barone regina di Vaudeville, Mr. John Lee e la sua rosa vellutata, Henry, Lily e il suo tragico destino, Calico delle montagne, Shannadeeah che muore in guerra e torna in una bara, Annabelle Lee (non una mia creazione originale), Mary delle luci gialle… Si potrebbe dire che io sia guidata dai personaggi… Mi piace usare simboli, che spesso stanno per i miei amici, i miei amanti, i miei sogni in generale.
Il personaggio di Mayflower May, a cui avevo già dedicato una canzone nel primo album, è un mio alter ego, che vive e muore nel modo in cui io vorrei farlo, che soffre tutti i dolori che ho provato nella mia vita, dolori d’amore, innanzitutto, ma estremizzandoli al di là di quello che potrei fare io. Ad esempio, Mayflower May si suicida in un certo numero di modi su alcune delle canzoni, di entrambi i miei dischi. Tutti i personaggi, come Mr. John Lee, ad esempio, sono persone reali della mia vita, ma proiettate in uno spazio-tempo fantastico. Dove muoiono in ogni modo e vivono intense relazioni sentimentali.
Ascoltando il disco, mi sembra di poter dire che per te Joan Baez, soprattutto nella tecnica di modulare la voce, e Leonard Cohen, per la capacità di estrarre melodie ed emozioni da paesaggi sonori estremamente spartani, sono due riferimenti importanti. E’ così?
Leonard Cohen ha avuto un’enorme influenza su di me, Joan Baez non direi. Capisco il perché di questo accostamento, per via della tonalità di voce soprattutto, ma credo che i miei riferimenti in ambito femminile siano principalmente Joni Mitchell e Nico.
Joan Baez non scriveva gran parte delle sue canzoni, aveva un’attitudine politica, era più poetica e cantava con uno stile più operistico. Credo in definitiva che sia Joni Mitchell la mia vera influenza tra le cantautrici.
Quanto a Leonard Cohen, invece, lo ammetto: lo considero un maestro e sono onorata del fatto che tu abbia sentito nella mia musica qualcosa di suo.
La ballata è un po’ l’eterna fenice della musica popolare, un genere che sembra sempre sul punto di estinguersi e invece, miracolosamente, ritrova sempre nuova vita. Nel tuo caso, come ti approcci a questo tipo di composizione, quali aspetti – musicali e testuali – cerchi di privilegiare per perpetuarne la magia?
Beh, tutto quello che posso dire è di amare molto le canzoni tristi, quelle che ti spezzano il cuore. Mi sento come se non potessi mai avere l’urgenza espressiva di scrivere una canzone allegra. Si può dire che non abbia familiarità con la felicità, perché subisco l’influenza di tutti i demoni di questo mondo. Molte storie tristi che leggo nei libri o ascolto alla radio mi fanno venire voglia di scrivere qualcosa in proposito, di dare voce al dolore in forma di ballata. Sono una vera tradizionalista e mi piace la vecchia musica. E’ come se, attraverso questo tipo di espressione, volessi rendere omaggio all’antichità.
Le tue ambientazioni sono sempre spettrali, malinconiche, direi invernali, ed è anche questo il senso che trasmette la grafica del tuo website. C’è qualcosa che ti ispira particolarmente in questo tipo di paesaggi e di umori?
Eh sì, l’inverno… Adoro l’inverno e mi sento “fredda” nel cuore. Mi piacciono i paesaggi spogli e surreali, e anche i miei dipinti sembrano solitari e invernali, come nelle sculture di Giacometti o negli acquerelli di Turner. L’estetica della tristezza è il mio terreno prediletto. Mi attirano le ferite e la morte, la violenza e il dolore, l’inverno e la solitudine. Mi piace creare atmosfere in cui la gente possa viaggiare, per fuggire dalle noiose trappole della modernità e dalla vuota plasticità del mondo moderno.
Quali sono i tuoi gusti musicali? Quale musica ascolti abitualmente?
Nina Simone, The Band, Nico, Lee Hazelwood, Josephine Foster, Leonard Cohen, Bob Dylan, Leadbelly, Billie Holiday: per me sono tutti una specie di medicina. Mi piace molta musica, in realtà: dall’opera al fado, dal country al folk. Nei miei dischi cerco di ricreare un piccolo amalgama dei miei generi preferiti.
Tu, Joanna Newsom , Elizabeth Anka Vajagic , Josephine Foster e perfino il ritorno della leggendaria Vashti Bunyan : sembra che per le folksinger sia un momento particolarmente felice. Come ti spieghi questa ri-esplosione del movimento folk, che anche sul versante maschile ( Devendra Banhart , Bonnie “Prince” Billy , Sufjan Stevens etc.) sembra riscuotere un inaspettato successo?
Forse il pubblico ha semplicemente bisogno di ascoltare musica vera, sincera, sia in ambito maschile sia in quello femminile. Credo che la rinascita del movimento folk sia molto positiva, perché dà voce a molte realtà non commerciali e oneste fino al midollo. Personalmente, amo tutti gli artisti che hai citato.
Il tuo sito parla di un imminente Ep: ci puoi raccontare qualcosa di questo tuo nuovo progetto?
In realtà sarà un album intero, del tutto inedito, e uscirà a marzo. Un’immagine psichedelica della Carter Family. Helena Espval degli Espers suona il violoncello, Greg Weeks il synth. Sono molto entusiasta di questo progetto e penso che sarà il mio disco migliore fino ad oggi.
Doveva essere un Ep, ma la musa della Tristezza ha colpito duro in questi giorni!
In un’altra intervista, hai dichiarato che il tuo stile potrebbe divenire più sperimentale. Puoi spiegarci più precisamente che cosa intendi?
Mi sento pronta a fare progressi. Ho realizzato due dischi che sono molto simili per stile e ora vorrei iniziare, ad esempio, a suonare di più il banjo e l’arpa, a tentare qualche esperimento con i beat. La mia estetica, comunque, rimarrà immutata: continuerò a comporre musica venata di malinconia, perché sono una ragazza triste.
Hai anche una piccola attività nel campo delle arti figurative: nel tuo sito sono raffigurati alcuni dipinti e sculture in legno…
Come dicevo, da ragazzina volevo fare la pittrice. Ho frequentato la scuola d’Arte e dipingere è ancora una parte rilevante della mia vita. Non avrei mai immaginato che il mio mestiere sarebbe stato quello di musicista e ho sempre pensato che mi sarei dedicata alla pittura. Ma ora comporre musica mi viene più naturalmente e adoro questo lavoro. Con la pittura avevo un rapporto più tormentato, una lotta per la perfezione. Nella musica, mi sento più libera di creare ed esplorare, in modo quasi artigianale.
Possiamo sperare di vederti suonare in Italia nel corso del 2006?
Sì, sarò in Italia a maggio con Jana Hunter. E non vedo l’ora!
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