Bon Jovi, spiccioli di sogno americano a San Siro
Il cantante americano torna dopo due anni in Italia. Quasi tre ore di show, tra lacrime, tastiere e tricolori
MILANO – Non hanno ingannato la zazzera un po’ accorciata, qualche rughetta, l’acuto che non sempre si elevava e l’acustica non sempre perfetta: chi è venuto a San Siro sabato sera voleva spiccioli di sogno americano, traslato ai tempi della crisi direttamente dai dorati anni’80. Ed è questo che Jon Bon Jovi, di quella stagione il re assoluto e al netto dei 51 anni che l’anagrafe gli assegna, ha offerto agli oltre 50.000 presenti allo stadio (dove veniva per la prima volta). Cinquantamila sì, San Siro non era pieno, buchi affioravano qua e là, la crisi (qui al netto dei sogni e delle stagioni dorate) incide anche da noi. E da noi, Bon Jovi non ha fatto come in Spagna, dove ha praticamente regalato i biglietti: qui costavano tra i 42 e i 96 euro, investimento non da poco di questi tempi grami.
I Bon Jovi a San Siro
RICHIE NON C’ERA – Bene, Jon ha iniziato con «That’s what the water made me»: l’acqua del New Jersey, l’aria da eterno ragazzotto di provincia, il giacchetto a stelle e strisce, la magliettina rossa attillata. Alle spalle il muso enorme, un po’ kitsch per non dire tamarro, lungo trenta metri, di una Buick azzurra. Questo il contesto, iperamericano diremmo, dello show. Non c’era il chitarrista Richie Sambora, eterno alter-ego di Jon (pare i due abbian litigato ferocemente). Poco male per i 50.000 di San Siro, che tanto Jon gli bastava. Anzi i fan, devoti come quelli del vicino di casa Springsteen, gli hanno pure regalato una coreografia degna di una curva calcistica, enorme bandiera americana disegnata sugli spalti. E tanti tricolori in mezzo al prato.
UNA LACRIMA SUL VISO – E a Jon per siffatto attaccamento, su «Because We Can», obamesco e ottimistico singolo del disco nuovo, è scesa pure una lacrima. Già, l’ottimismo, la ricetta è poi quella di sempre, canzoni nuove che il nostro avrebbe potuto scrivere anche due decadi fa: vendere appunto l’american dream, che ci fosse Reagan che ci sia Obama (di cui peraltro Jon è convinto sostenitore), spandere buonumore a volontà, proporre canzoni semplici e immediate, al limite del pop, al limite del rock. La formula sonora ecco, altrettanto sperimentata e immutabile: chitarrismi quando serve, tastierismi abbondanti di sapore barocco, mentre Jon ancheggia, salta, corre.
LA CRISI FUORI DALLO STADIO – E poi ci sono le canzoni, quelle canzoni che l’american dream hanno incarnato sono sfilate tutte: «You Give Love a Bad Name», «It’s My Life», «Bad Medicine»: su quest’ultima, tripudio ottantesco, lo stadio letteralmente esplodeva. Poi arrivavano i bis: «Wanted Dead or Alive», forse la canzone più bella di tutto il repertorio di Bon Jovi, tanto diversa da tutto il resto, il brano che consegna il nostro agli anni’90. E poi «Livin’ on a Prayer», inno e basta. E le strappalacrime «Always», «These Days» e «This Ain’t A Love Song». Dopo quasi tre ore di show, la gente sfilava, sorridente e serena: per quelle tre ore, la crisi è rimasta fuori da San Siro.
Matteo Cruccu
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