LONDRA – Come se niente fosse, come se il tempo non contasse, rispolverano la vecchia ferraglia, le Fender tirate a lucido, ruggini sonore che vengono da un’epoca remota, da vecchi impenitenti ribaldi del rock’n’roll, pirateschi, guasconi dal cuore inguaribilmente blues, e osano tornare sul palco, una gigantesca e turgida bocca rosso fuoco che nel corso del concerto cambia forma e colore più volte, davanti a una platea gremita di urlanti fan che li festeggiano come se il rock, il vero rock, fosse solo ed esclusivamente quello dei Rolling Stones.
Le “loro sataniche maestà” ci sono, oltre le rughe, oltre l’artrite, cantano e suonano la loro titanica fiducia nel lessico fondamentale del rock, perfino oggi che l’età sconsiglierebbe certe pulsioni ribellistiche. Potrebbero risultare ridicoli, ma c’è sempre la zampata vincente, il graffio dei maestri, di chi ha praticato visioni dionisiache e sa trasformarle in divertimento collettivo. Del resto l’orizzonte del rock si sposta, di continuo.
Qualche decennio fa ci si domandava se avesse senso fare rock dopo i trent’anni. Oggi siamo qui a domandarci se ha senso dopo i settanta. Ma non chiedetelo a Jagger e compagni. Per loro la risposta è ovvia. Sono lì, cinquant’anni dopo l’imberbe debutto al Marquee di Londra, scatenati, rumorosi, e l’aria è quella della grande festa, per un anniversario importante, tondo, perfetto.
Regalano al pubblico la scaletta perfetta, iniziando con un tributo ai Beatles, ovvero I wanna be your man, quasi la loro prima canzone, che fu un regalo di Lennon e McCartney, e poi Get off of my cloud, Paint it black, Wild horses, un juke box tutto da godere, e hanno voluto sul palco i due grandi ex, Bill Wyman, il saggio e venerando bassista che era lì dalla fondazione, il più vecchio dei cinque (76 anni), al quale hanno riservato una smagliante It’s only rock’n’roll, e poi Mick Taylor, quello che sostituì Brian Jones negli anni ruggenti della band, prima dell’arrivo di Ron Wood, che poi si è rivelato il perfetto compare di Keith, compagno di inenarrabili bagordi.
Arricchiscono lo show ospiti come Jeff Beck e Mary J. Blige (chiamata su Gimme shelter). Il finale travolgente è con Jumping jack flash.
La linguaccia è sempre lì, viva e impertinente, “ci siamo, stiamo bene”, sembrano dire, mentre dalla rugosissima faccia di Jagger esce ancora la voce di sempre, balla, sculetta, da eterno ragazzino, le dita nodose e deformate di Keith Richards arpionano la chitarra con antica sapienza, lui che è il garante del lato oscuro della forza, e Ron Wood fa ondeggiare la chitarra vicino a terra come se volesse raschiare l’energia. Charlie Watts tiene il tempo senza strafare, come ha fatto per cinquant’anni.
Sembra quasi incredibile che stiano ancora lì, all’Arena 02 (ci sarà una seconda data il 29, e poi in America), su un palco a cantare le rabbie di un tempo, la “non soddisfazione”, i lampi di vita, il sesso, Honky tonk women, Miss you, Start me up, Brown sugar, la brutale cavalcata di Midnight rambler, la rischiosa sbandata di Sympathy for the devil, ma dopo aver dubitato del senso stesso della loro sopravvivenza, così immutabile, non resta che prenderne atto. In realtà sembra che siano sempre esistiti, infiniti e senza tempo, un’icona vivente che al momento opportuno si ricrea, superando offese e dispute, divergenze e vite private inconciliabili.
Hanno perfino superato la divertentissima autobiografia di Keith Richards nella quale chiama Jagger Brenda, e per di più allude a una sua non ragguardevole dotazione erotica. Jagger lo dice, dopo aver scherzato sull’alto costo dei biglietti: “La cosa più sorprendente è che siate ancora qui a seguirci”, vero, ma del resto tutto cambia, tutto sembra incerto, ma una sola certezza granitica rimane: l’immarcescibile rock’n’roll degli Stones.
Le pietre continuano a rotolare e se, come si dice, i Beatles si sono sciolti troppo presto, e gli Stones troppo tardi, o anzi colpevolmente mai, fanno la loro parte, da vecchi maestri, come fosse una lezione ambulante sugli antichi demoni del rock’n’roll.
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