Ci sono fondamentalmente due tipi di Bruce Springsteen: quello fisico, di grande impatto sonoro e muscolare, che si sgola per la sua America, corre su e giù per il palco per tre ore e fa cantare ai fans i propri inni da stadio; e quello più riflessivo, acustico ed intimista, che sceglie un’altra veste per esprimere le sue verità ed i suoi dubbi.
In Rocky Ground, secondo singolo estratto da Wrecking Ball dopo la buona visibilità ottenuta da We Take Care Of Our Own, queste sfaccettature del Boss emergono in egual misura, fondendosi in un brano intenso e molto particolare.
Lo Springsteen più tradizionalmente americano si riflette in questa ripresa di un vecchio gospel, trasformato in brano carico di oscure atmosfere urbane alla “Streets Of Philadelphia”: qui il testo è però religiosissimo, utilizzando l’espediente tutto a stelle e strisce di riprendere passi biblici per adattarli alla vita quotidiana nell’indissolubile commistione di Dio e America.
A questi aspetti si affiancano le riflessioni ora sussurrate ora gridate in sottofondo del Boss, magistralmente accompagnato da un coro di voci femminili in un contesto di forte epicità malinconica.
Che l’emozione voglia essere messa in risalto lo si capisce anche dal mixaggio della canzone, dove la batteria hip hop e una birichina chitarra carica di wah wah vengono spedite in secondo piano a vantaggio dei movimenti marmorei della ritmica.
Prima della chiusura tipicamente da Chiesa del Sud, la canzone concede una novità per il canzoniere del menestrello della working class: un pezzo di rap rallentato di Michelle Moore, molto anni ’90, poggiato con grazia ed efficacia sul tappeto sonoro precedentemente steso.
Rocky Ground non è la solita galoppata di sudore springsteeniana, ma nemmeno uno dei momenti fortemente personali alla Nebraska; piuttosto, un ennesimo capitolo espressivo di un artista fortemente caratterizzabile, ma che al contempo può permettersi qualche sfizio artistico a dispetto di tutto e tutti.
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